Il Generale Comandante della Divisione - «grande barba d’apostolo e celesti occhi paterni» - era un livido idiota. Aveva il petto gonfio di medaglie e d’orgoglio guerrafondaio; trotterellava in pieno giorno tra i reticolati con bastone e monocolo, pretendendo che gli ufficiali lo seguissero. E davvero t’invadeva la voglia che un proiettile austriaco gli esplodesse quella testaccia di legno. Fu il Generale Comadante che, nell’estate del 1916, convocò un tribunale militare straordinario. Otto disgraziati fantaccini persisi nelle notti della Valmorbia - il Trentino e le trincee labirintiche della Grande Guerra -, dovevano essere condannati per diserzione. E almeno uno di essi doveva essere fucilato, così, «per dare l’esempio». La storia, autobiografica, è al centro del racconto Il mio primo processo (Ed. Henry Beyle, pp.42, euro 22) dell’allora 27enne Piero Calamendrei, fresco ordinario di procedura civile a Messina e di stanza al fronte col grado di tenente. Il futuro grande giurista, proprio in virtù della sua presunta abilità avvocatizia, venne scelto come difensore nel processo-farsa che ricorda in modo impressionante l’Orizzonti di gloria di Humphrey Cobb (oggi rieditato Castelvecchi) portato al cinema da Stanley Kubrick. Stessi soldati accusati di codardia; stesso difensore - lì Kirk Douglas, qui Calamandrei - avvolto dai dubbi; stessa latitanza della certezza del diritto sacrificato sull’altare delle carriere di alti ufficiali ferocemente ottusi. Anzi, per onestà, azzardo che - date le origini di Cobb, nato a Siena e coevo di Calamandrei- non fu solo la nota vicenda del 336º Reggimento di fanteria francese del generale Réveilhac ad ispirarne il romanzo: qualche eco dalla vicenda italiana potrebbe anche starci. La differenza tra i due processi è che l’avvocato Calamandrei vinse sollevando un errore di procedura: «secondo l’art. 559 del codice penale militare i tribunali straordinari si convocano «per dare un pronto esempio di miliare giustizia». Qui il fatto è avvenuto già da tre settimane: tutti questi soldati per tre settimane hanno fatto il loro dovere in trincea, due sono anche morti. L’urgenza dell’esempio non c’è più...», espose. Nella tensione generale il giovane difensore trovò sponda nel pm -un avvocato di Padova-; il giudizio fu sospeso, i soldati in seguito assolti ed lui, rischiando anch’egli la fucilazione, la sfangò passando per infermo di mente. Vicenda straordinaria, seminedita (pubblicata solo sulla rivista Il Ponte, ’56), scritta col passo ritmato d’uno sceneggiatore cinematografico. La sfoglio mentre sfilo nei corridoi della bella mostra inaugurata oggi, Piero Calamandrei: libertà e legalità, a cura di Francesca Cenni (presso l’auditorium dello Studio legale La Scala a Milano). E qui mi si materializzano le immagini familiari, lievi e sorridenti di Calamandrei a Montepulciano inesausto produttore di poesie e racconti - I poemetti della bontà, La burla di Primavera, Ada dagli occhi stellanti dedicata alla moglie -. Di Calamandrei all’esame di laurea a Pisa e poi arruolato nella task force dei giovani legulei dello Studio Chiovenda. Di Calamandrei militare in Zona di guerra che continua a difendere, sempre più affinato nell’oratoria, soldati puniti per diserzione e indisciplina; e che si profonde nell’epicedio a Cesare Battisti. Di Calamandrei tra le due guerre, con Salvemini e contro il fascismo al fianco di Rosselli, Croce, Pangrazi. Di Calamandrei, perfino, che da maestro indiscusso della procedura civile, verga il famoso pamphlet Elogio dei giudici, scritto da un avvocato (Ponte alle Grazie). E qui io mi fermo. E -da fan di Calamandrei ed ex appassionato del processo di cognizione- mi chiedo: viste le orde nei tribunali, gli scandali, gli inceppi delle procedure, la foga e il protagonismo romanzesco di certi pubblici ministeri; visto il quadro, insomma, dell’«incertezza etica e normativa», il Maestro avrebbe scritto, oggi, le medesime cose? «Il segreto della giustizia sta in una sempre maggior umanità e in una sempre maggiore vicinanza umana tra avvocati e giudici nella lotta contro il dolore», diceva. Considerando, forse, che ogni epoca ha i Generali Comandanti che si merita... di Francesco Specchia L'estratto Nel parlare mi rinfrancavo: - Gli otto imputati hanno il loro giudice naturale: perché non si deve dimenticare (e qui mi scappò detta una verità che in quel momento era una grossa scempiaggine) che un tribunale straordinario è un organo di giustizia un po' mal sicuro... Bastò questa frase a fare scoppiare la bomba. Il capitano di stato maggiore scattò in piedi dando un pugno che fece traballare la tavola: -Signor presidente io non posso permettere che questo subalterno continui a oltraggiare così il nostro tribunale e il signor generale che l'ha convocato! Ammutolii. Il colonnello, intimidito anche lui da quel capitano che era la voce del comando di Divisione, invece di redarguirlo per quella interruzione, se la rifece con me. Mi disse, con viso scuro: Tenente le ordino di tacere. Non c'era bisogno che me l'ordinasse. Fu rapidamente esaurito l'interrogatorio degli imputati: tutti dicevano le stesse cose: «Era buio… Non si sapeva la strada». Risposte troppo vere per essere credute dai giudici. Furono sentiti i carabinieri che li avevano arrestati: «Erano lì, addormentati dietro un muretto...». Ora veniva il mio turno di difensore. Ma che ancora avrei potuto dire? Sentivo con struggimento la mia impotenza: non mi restava che rimettermi alla «giustizia (alla militare giustizia) del tribunale». Ma qui l’accusatore, che era stato sempre zitto, mi venne in aiuto. Anche lui, come me, era un ufficiale di complemento (credo che fosse un avvocato di Padova); ma era ufficiale della giustizia militare: non era, come me, un novellino di processi di guerra: e aveva dietro di se l'autorità del Corpo d'Armata, dal quale era stato mandato. Il colonnello gli dette con deferenza la parola: -Dica capitano. E il capitano parlò: Uditi gli imputati e i testimoni, mi sono convinto che le ragioni di urgenza che occorrono per giustificare la convocazione di un tribunale straordinario non sussistono. Ne sono dolente, perché questo tribunale straordinario sarebbe stato l'organo di giustizia più efficace e autorevole. Ma le leggi sono leggi (...). I giudici, a sentir queste conclusioni, parvero liberati da un incubo. Il viso del colonnello si schiarì Soltanto i baffi del capitano di stato maggiore sprizzavano scintille di furore. (da Il mio primo processo, ed. Henry Beyle)