di Maurizio Belpietro Pier Luigi Bersani ha fatto tutto quanto era in suo potere per complicarsi la vita. Fosse stato cauto e avesse fatto uso di una modica quantità di buon senso, il 26 febbraio avrebbe aperto al confronto con tutte le forze parlamentari uscite dalle elezioni, cercando di battere la strada della concordia nazionale e non della discordia. Al contrario, una volta constatato di non avere i numeri per governare, il segretario del Partito democratico ha chiuso la porta in faccia al Popolo della libertà ed al suo leader, per spalancarla a Beppe Grillo e al Movimento Cinque Stelle. Risultato: a quasi un mese di distanza dal voto le possibilità che egli riesca a formare un nuovo governo con una maggioranza in entrambi i rami del Parlamento sono assai scarse. Ieri il capo dello Stato gli ha affidato un mandato esplorativo, non senza prima aver precisato che la soluzione migliore sarebbe stata quella della grande coalizione, cioè di un esecutivo ampio, che includesse anche il Pdl. Tuttavia questa è una strada che Bersani non può più intraprendere, perché egli stesso si è tagliato i ponti alle spalle. Ed essendo difficilmente percorribile anche l’accidentato sentiero che conduce ad un’alleanza con i “grillini”, per il presidente “esploratore” è davvero dura. Non a caso, dopo l’intervento del capo dello Stato e l’annuncio dell’incarico, il segretario del Pd ha parlato il meno possibile. Di fronte ai cronisti l’uomo che voleva smacchiare i giaguari è apparso smacchiato. Pallido, teso, incapace perfino di evocare le sue fantasiose immagini. D’un tratto, dopo settimane di dichiarazioni tracotanti, Bersani si è reso conto che i margini per dar vita a un esecutivo, sono davvero ridotti, perché non c’è nessun tacchino sul tetto. A convincere Grillo non sono bastati otto punti di un programma che più stellato di così non si poteva. Anche ieri, per tramite dei suoi capigruppo, il mahatma di Genova ha ribadito il suo no alla fiducia. Non solo: a quanto pare l’ex comico ha chiuso anche il mercato nero, bloccando i sotterfugi su cui faceva conto il leader del Pd. Nessun «franco tiratore» o, meglio, franco traditore andrà in soccorso di Bersani. Svanita anche la possibilità che i senatori del Movimento Cinque stelle escano dall’aula per consentire al governo di ottenere la fiducia con un numero di voti inferiore a quello richiesto dal regolamento. Alla resa dei conti, le furbizie da prima Repubblica su cui contava il compagno segretario si sono rivelate impossibili. Se Bersani vuole dar vita all’esecutivo ed evitare di schiantarsi contro il muro dei no non può dunque fare affidamento sui «grillini», perché da loro non arriverà alcun aiuto. A questo punto, se non intende concludere la carriera con il peggiore dei fiaschi, al segretario del Partito democratico non resta altra via che rivolgere lo sguardo e le attenzioni verso il Pdl. Anche se non lo ammetterà mai pubblicamente, il rebus per dare al Paese un governo ed evitare il ricorso alle urne, Bersani lo può risolvere solo se si siede al tavolo dell’odiato «Caimano». È con Berlusconi, o comunque con qualcuno dei suoi emissari, che deve trattare. Il lettore forse a questo punto si chiederà con che faccia e soprattutto per fare che cosa il segretario del Pd chiederà aiuto al Popolo della Libertà. Certo non per un governo di cui facciano parte esponenti del centrodestra. Metà dei parlamentari della sinistra si rifiuterebbe di votare un simile esecutivo e dunque il presidente incaricato tornerebbe in alto mare, senza numeri e senza fiducia. Né è pensabile che Berlusconi faccia convergere i voti dei suoi onorevoli su Bersani senza che questo li richieda ufficialmente e dunque offra garanzie di un governo moderato. Da escludere anche l’idea circolata nei giorni scorsi, ovvero che il soccorso rosso sia in realtà verde, e cioè che ci pensino i senatori leghisti a togliere le castagne dal fuoco al compagno segretario. Perché dovrebbero? In cambio della promessa che non si voterà? Difficile che accettino. Innanzitutto perché spiegare nelle valli bergamasche o nel Veneto le ragioni di un’alleanza che va da Vendola a Monti non è uno scherzo. E poi perché il contraccolpo del tradimento rischierebbe di far crollare le giunte regionali del Nord. E allora che altro rimane? L’unica possibilità è che approfittando della domenica delle Palme il presidente esploratore offra un rametto d’ulivo, cioè la promessa pacificatrice di un presidente della Repubblica condiviso. Invece di minacciare l’elezione di un Rodotà o un Zagrebelsky, Bersani potrebbe giocare la carta di Giuliano Amato, oppure di Franco Marini o, perché no, un reincarico a Giorgio Napolitano, in cambio di una benevola uscita dall’aula del Pdl al momento di votare la fiducia al governo. Insomma, la strada stretta per la nascita del nuovo governo passa dalla trattativa sul nuovo capo dello Stato. Un percorso angusto, con passaggi complicati, che alla fine porterebbe alla nascita di un esecutivo rachitico, di minoranza e con un programma limitato, che però consentirebbe di evitare le elezioni e, forse, anche altre divisioni. Insomma, la compravendita è in corso. Vedremo se si concluderà. @BelpietroTweet