Pensioni, assegno più alto: ecco come rimediare alla riforma Fornero

Occhio ai fondi pensione. Le tasse dei prodotti della previdenza complementare oscillano tra 15 e il 9%. E nel lungo periodo i rendimenti superano il Tfr
di Giulio Bucchidomenica 28 luglio 2013
Elsa Fornero

Elsa Fornero

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C’è un allarme mai rientrato che ha condizionato nel bene e nel male tutte le riforme previdenziali che si sono susseguite in questi anni: la decrescita del tasso di sostituzione, il rapporto cioè tra l’ultimo reddito di un lavoratore e la sua prima rata di pensione. L’inevitabile e doloroso passaggio dal retributivo (il calcolo in base agli stipendi più elevati) al contributivo (sui contributi effettivamente versati negli anni) porterà, infatti, le nuove generazioni a prendere tra il 70 e il 50% dell’ultima busta paga. Un bel problema. Che negli anni scorsi il legislatore ha cercato di risolvere incentivando la previdenza complementare.  Il ragionamento suona così: la pensione non basta più? Bene. Allora invogliamo i lavoratori, dipendenti e autonomi, a farsene un’altra. Come? Aderendo ai fondi pensione. Quali? Ci sono i fondi negoziali di categoria, quelli aperti e gli strumenti individuali, tipo Pip. Ma i dipendenti hanno un problema in più: quello della liquidazione. Cosa fare? Se la lascio in azienda mi si rivaluta del 75% del tasso di inflazione più l’1,5%, altrimenti lo sposto in uno strumento finanziario come il fondo pensione che ha dei costi e dei rendimenti che oscillano in base all’andamento dei mercati.   Tassazione - Ecco i vantaggi: al momento della liquidazione il Tfr in azienda è soggetto alla tassazione secondo gli scaglioni Irpef, dal 23 al 43%, mentre i fondi oscillano nella forchetta 15% e il 9% (dopo i primi 15 anni l’aliquota del 15% si riduce dello 0,30 per ogni anno successivo fino ad un massimo di 6 punti). Mentre la ritenuta sui rendimenti è dell’11% contro il 20% delle altre attività finanziarie. E poi c’è maggiore flessibilità: nei fondi, per esempio, il 75% di quanto maturato può essere anticipato in qualsiasi momento per motivi sanitari. E gli svantaggi: investendo nei fondi pensioni ovviamente si rischia di più. Nel senso che i nostri soldi, seppur nei limiti di paletti molto precisi previsti dalla legge, saranno investiti da un gestore in azioni, obbligazioni, titoli di Stato e quindi andranno valutati nel lungo periodo. Perché un paio di annate storte della Borsa possono capitare, basta guardare quanto successo recentemente, ma nella previdenza conta quanto si porta a casa alla fine. E allora? Molto dipende dalla nostra scelta e dalle capacità dei gestori dei fondi ai quali ci affidiamo. Si può puntare sui comparti più rischiosi: portafoglio che privilegia strumenti azionari. Su quelli conservativi: investendo esclusivamente in strumenti obbligazionari e monetari. O su una via di mezzo.  Poi, comunque, alla fine bisogna fare i conti con i numeri. Che ci dicono che dall’inizio del 2013 i fondi pensione hanno registrato un rendimento medio dell’1,6%, poco al di sopra del tasso di rivalutazione del Tfr, vicino all'1,3%. Mentre nell’ultimo anno  i negoziali (quelli di aziende o singoli comparti dai metalmeccanici ai chimici) hanno guadagnato il 6,5%.  Così come gli aperti (quelli sottoscrivibili da tutti e  istituiti da banche, Sgr, Sim e imprese di assicurazione), nel solo 2012, hanno registrato performance intorno al 9%.  Il confronto - Questo cosa vuol dire? Poco o niente. Perché, è bene ripeterlo, qui conta il lungo periodo. E allora ci torna utile la tabella sopra che mette a confronto (fonte Covip) i rendimenti degli ultimi otto anni dei fondi pensione negoziali e aperti con la rivalutazione del Tfr. Ma ancora non basta. Perché una scelta oculata non può prescindere da un’analisi storica dei rendimenti dei singoli prodotti. E dall’importanza che ha il contributo del datore di lavoro che oscilla tra l’1 e l’1,80% della retribuzione annuale e spetta al dipendente solo se questi decide di aderire a un fondo pensione negoziale e versa il contributo minimo stabilito a suo carico dal contratto.  Nella gran parte delle simulazioni preparate dai fondi specializzati, infatti, è  proprio il contributo del datore di lavoro a fare la differenza tra la convenienza di puntare sulla previdenza complementare rispetto alla scelta di lasciare il Tfr in azienda. Un esempio? Un chimico con uno stipendio base che nel 1997 avesse aderito al fondo comparto “Stabilità” (30% azioni e 70% obbligazioni)  di Fonchim, oggi si ritroverebbe con circa 78 mila euro, mentre il suo gemello che avesse deciso di lasciare il Tfr in azienda oggi ne avrebbe 58 mila. Occhio però, perché il contributo del datore di lavoro pesa per più di 10 mila euro. di Tobia De Stefano

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