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G8 a Genova, la verità 20 anni dopo su Carlo Giuliani e i no global: ecco chi cercava lo scontro a ogni costo

Renato Farina
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Vent' anni fa ci fu il G8 di Genova. Le rievocazioni di quei giorni tendono a sacralizzare le manifestazioni, identificano gli eroi nelle schiere degli antagonisti e i carnefici tra le forze dell'ordine. Non andò così. Chi incendiò la città, organizzò assalti, programmò feriti e magari il morto stava dalla parte dei rivoltosi, che seppero sfruttare come marsupio accogliente la massa convogliata lì dai Democratici di sinistra e dalle sigle dell'ingenuo volontariato cattolico. Poi ci fu una pessima strategia da parte del ministero degli Interni e dal capo della Polizia, e lo scrivemmo su Libero immediatamente. Ma il peso dell'orrore spetta ai capi della sinistra parlamentare che, dopo i primi scontri provocati dagli anarchici -terroristi greci, insistette nell'invitare il loro popolo ad accodarsi ai vari Luca Casarini e don Della Sala, detto don Pistola, che insistevano nel grido di guerra, spezzandola linea rossa in difesa della cittadella dei potenti, da Bush a Putin, e specialmente Berlusconi. Ah, farla pagare a Berlusconi! Durante tutti questi vent' anni una martellante campagna di stampa, una serie di film e documentari diffusi soprattutto dalla Rai, ha occultato mandanti e killer degli eventi di quei giorni di manifestazione nella fosca luce dei crudeli pestaggi della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto, ingiustificabili da qualsiasi angolo li si giudichi, ma quella fu un'altra storia. Non da occultare, per carità, è stata una macelleria, condanne definitive hanno sanzionato dirigenti della Pubblica sicurezza e hanno sfiorato i massimi vertici della polizia. Ma l'infamia della Diaz non può coprire l'orrore dei giorni precedenti, il cui colore è il rosso di chi ha voluto porre le premesse del sangue.


LA TRAGEDIA - Invece delle analisi, ripropongo quello che ho visto da cronista. Insieme a Toni Capuozzo di Mediaset, fui il primo ad arrivare a piazza Alimonda. Carlo Giuliani giaceva a terra, aveva il nero passamontagna immerso nel sangue. Mi spostai vicino a lui, e a un passo da quel corpo dissi un requiem. C'era un silenzio tremendo alle 17 e 35 di quel venerdì. Poi tornarono le urla. Ma quei minuti furono di ghiaccio. Era il naturale epilogo di quei giorni. Fin dal giovedì era chiaro quel che sarebbe accaduto. Lo scrissi su Libero: sarà il giorno del morto. Non c'erano bambini in giro per Genova, non una sola carrozzina. Sul mio taccuino: «Questa città è un imbuto desolato, la vita è stata prosciugata, le strade sono ridotte a set cinematografico, dove non ci saranno controfigure il sangue non sarà sugo di pomodoro». Mi avvicinai a Vittorio Agnoletto per dirgli: come dice Umberto Eco avete già vinto la battaglia dei media, è inutile insistere, una massa così grande, dove la grande maggioranza dei contestatori dei potenti del mondo non farebbe male a una mosca, funzionerà come l'acqua per i pescecani. Agnoletto rispose: «Mano, oggi stiamo dimostrando che il movimento del Genova Social Forum è una festa. Certo c'è un po' di tensione, ma poi passa...». C'erano nella folla patetici dinosauri di altre battaglie, insieme a quelli che si provavano le tute imbottite per resistere ai colpi. Erano tutti meccanismi dell'orrendo orologio a cucù caricato in vista dell'ora x. Ed eccoci al venerdì. Genova sin dal primo mattino, come facilmente prevedibile, era diventata una terra in mano alla follia anarchica. Le tute bianche (gli antagonisti buoni di Casarin, Venezia; Agnoletto e Farina, Milano; Caruso, Napoli) avanzavano con i loro marchingegni da guerra di Troia in quattro punti per forzare la famosa zona rossa. Ma la loro schiera fintamente brancaleonesca serviva da filtro di protezione per le scorrerie dei Black Bloc (italiani, tedeschi, greci, serbi). Costoro avevano campo libero. Incendi, saccheggi. Genova era diventata loro. I vecchi appunti di allora sono precisi. In via Piasacane le tute nere assaltano i carabinieri. Sassi per ammazzare. Prendono di mira Capuozzo e me che non abbiamo scudi. Sfondano una vetrina della Banca nazionale del lavoro. Sradicano computer, appiccano fiamme. Sono italiani. Ci gridano: «Bastardi». Tre molotov. Macchine incendiate. Dalle finestre la gente grida ai carabinieri: «Sparategli, sono assassini». Il commando riesce a rifugiarsi nel seno dei cinquemila dei Cobas. Sono la loro mamma. Che li sgrida, ma li protegge. Dalla parte della stazione di Brignole, oltre il sottopasso, ci imbattiamo in un altro manipolo, svaligiano un negozietto, portano via ridendo liquori, vino, prosciutti. Disegnano stelle a cinque punte, scrivono "Fuck the police".


SCENE DI GUERRIGLIA - Un balzo di qualche ora. Da vecchi arnesi da corteo, sappiamo, Toni più di me, che gli scontri più gravi non sono mai alla testa del corteo, il cozzare può essere duro e spettacolare, ci si mena. Ma le viscere della violenza bisogna andarle a trovare oltre il fumo dei lacrimogeni. Un segnale pauroso: c'è una camionetta bruciata. L'odore della morte è orribilmente attraente. Corriamo. Un gruppo di ragazzi in fuga, vedono la telecamera, dicono: «Correte là, c'è un morto». Piazza Alimonda. Immobilità assoluta. Poi, ecco. Due gambe inerti, innaturalmente larghe. Una canottiera bianca, la testa stretta dal passamontagna adagiata nel sangue bruno. C'è un sasso, un estintore rosso. Grida di ragazzi e di carabinieri. Arriva una inutile ambulanza. Cercano di rianimarlo. Gli applicano una specie di cerotto sul petto. Il volto, finalmente lo vediamo. È un ragazzo, ha il volto candido come quello di tutti iragazzi coi capelli rossi. Scrivo: «Viene in mente sua madre. Vengono in mente i furbi che hanno messo su questa baraonda». Libero titolerà quel giorno l'editoriale di Vittorio Feltri: "È legittima difesa". Il carabiniere Placanica ha sparato per non venire ammazzato da Giuliani. Il giorno dopo è prevista la seconda, ancor più grande manifestazione. Il buon senso, una certa idea di umanità, consiglierebbe di fermarsi. Non c'è da abbattere una tirannia. Anzi forse sì, ad ascoltare la sinistra, occorre sputtanare davanti al mondo intero il dittatore Berlusconi. I dirigenti dei Democratici di sinistra (segretario Piero Fassino) non disdicono l'adesione, non intendono fermare l'afflusso. Tanti bravi figlioli e figliole dell'oratorio. Ci sono state provocazioni di scalmanati e violenti, che si sganciavano e si rifugiavano tra di loro, ma duole dirlo ho assistito a pestaggi gratuiti di ragazzini da una polizia mal governata. E poi la Diaz.


LA BOMBA DELLA RIVOLTA - Alla fine di quel mese di luglio, Berlusconi mi telefonò alle 7 del mattino: «Ha visto che ho liquidato i capi della polizia incapaci?». A che gioco avevano giocato quel sabato sulle strade e poi alla Diaz? L'idea ce l'ho chiara: fottere Berlusconi, mostrare un volto del centrodestra speculare a quello degli antagonisti. Occhio per occhio. Non funziona così, la democrazia. Ma, diciamolo, la bomba della rivolta l'ha piazzata coscientemente la sinistra. C'è da dire che da allora gli organizzatori dei G8 hanno appreso la lezione. Tengono i summit in luoghi inaccessibili. E la stampa adesso, chissà perché, invece di attaccare questi assembramenti di potenti, li venera.

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