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Giustizia, separare la magistratura dalla politica: ecco perché è l'urgenza massima

Marta Cartabia

Francesco Carella
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Falliti i cinque referendum resta immutata la grande anomalia del caso Italia: un Paese sotto schiaffo giudiziario. Si pensava - dopo lo tsunami che aveva colpito pesantemente la magistratura con le rivelazioni dell'ex membro del Csm, Luca Palamara- che presso la pubblica opinione fossero maturi i tempi, per chiedere in via diretta, un radicale cambio di passo a un ordine giudiziario sempre più protagonista dell'arena politica. Il risultato del referendum dimostra che si è trattato di una gigantesca illusione. La qual cosa impone, a quella parte di classe dirigente che non ha smesso di credere nella possibilità che i princìpi della democrazia liberale possano essere recuperati, una profonda riflessione sia sui meccanismi che regolano la giurisdizione che sugli ambigui rapporti che intercorrono fra potere politico e mondo giudiziario.

 

 

Il caso Italia va analizzato nel quadro di un mutamento avvenuto negli ultimi decenni in tutto l'Occidente democratico e che ha in parte riscritto il peso specifico sia dei politici che dei magistrati. A tal proposito, nei primi anni '90 due studiosi, Tate e Valinder, rendono chiara tale trasformazione attraverso il concetto di «giudiziarizzazione della politica», intendendo con tale formula «l'espansione del raggio operativo dei giudici a scapito dei legislatori in modo tale da spostare le competenze circa le decisioni collettive dal legislativo e dall'esecutivo verso le stanze dei tribunali».

Un cambiamento che in Italia ha fin da subito assunto un carattere patologico a causa della presenza di una classe politica debole che ha consentito, dal '92-'93 in poi, che il perimetro della giurisdizione si allargasse senza controlli al punto da mettere a rischio il corretto equilibrio fra i poteri dello Stato. «Il pericolo che si corre con l'affermazione del magistrato politico» - ha scritto lo storico Carlo Guarnieri - «è di doversi confrontare con un potere irresponsabile e in parte fuori controllo, lasciando campo libero a opache forme d'influenza». In tal senso, vale la pena di ricordare che un cardine del pensiero liberale ruota intorno all'assunto che in uno Stato di diritto i titolari di un potere pubblico nell'esercizio delle loro funzioni devono incontrare sempre un contrappeso.

 

 

Quello giudiziario non può sfuggire a questa regola aurea della democrazia, anche se in Italia la sinistra tende a dimenticarlo per cultura, opportunismo e calcolo demagogico. Una volta archiviate le polemiche sulla "caporetto" dei cinque referendum occorrerà rimettersi al lavoro per ricondurre entro l'area dell'imparzialità la figura del magistrato. Si tratta di una condizione indispensabile - in tale direzione la riforma Cartabia rappresenta solo un incerto e timido passo - per giustificare le costituzionali garanzie d'indipendenza, ma soprattutto per cancellare il pericolo di una definitiva deriva illiberale della nostra Repubblica.

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