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Carlo Nordio: "Col mio piano-giustizia risparmio 36 miliardi"

Carlo Nordio  

Fausto Carioti
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«Vuole un esempio della confusione e delle contraddizioni della nostra giustizia?», chiede Carlo Nordio, classe 1947, uno dei pochi magistrati italiani di cultura liberale, candidato nelle liste di Fratelli d'Italia e, secondo gli spifferi di palazzo, prossimo guardasigilli. Risposta facile: certo che sì. «Prendiamo questi due codici. Quello penale è del 1930, ed è firmato da Mussolini e dal re. Benché privato dei reati più odiosi, come quello contro l'integrità della stirpe, mantiene la struttura ideologica dello Stato etico hegeliano, recepita dal fascismo. Ebbene, esso gode di buona salute, salvo il fatto che, se una persona fosse imputata di apologia di fascismo, verrebbe condannata in base a un codice del regime. Il contrario di quanto sia accaduto a quest'altro, il codice di procedura penale, firmato dal professor Vassalli, partigiano decorato della Resistenza. È stato demolito dalla Corte Costituzionale, che lo ha più volte dichiarato incompatibile con la Costituzione. Più paradossale di così!».

Eppure, dottor Nordio, la riforma da lei proposta va oltre la giustizia penale e passa per la riscrittura di parte della Costituzione. Essa prevede - leggo dal suo libro "La stagione dell'indulgenza" - «la separazione delle carriere, la discrezionalità dell'azione penale, la riformulazione dei rapporti tra pubblico ministero e polizia giudiziaria, la distinzione tra giudice del fatto (la giuria popolare che emette il verdetto) e il giudice del diritto (che pronuncia la sentenza), e non ultima la nomina governativa dei giudici e quella elettiva dei pubblici ministeri».

 



Sono questi gli obiettivi con cui arriva in Parlamento e si prepara ad assumere un eventuale ruolo di ministro della Giustizia?
«Prima di tutto bisogna vedere i risultati elettorali. In secondo luogo, i ministri vengono nominati dal capo dello Stato. Infine, le riforme le fa il Parlamento, non il Guardasigilli. Io posso solo dire come la penso in materia».

Quali sono, allora, le riforme che reputa più urgenti?
«Quelle della giustizia che impattano sull'economia, che oggi è l'emergenza più grave. Secondo studi accurati e indipendenti, la lentezza della giustizia civile e penale ci costa circa un due per cento di prodotto interno lordo».

Che fanno circa 36 miliardi di euro l'anno, l'entità di una manovra...
«Appunto. Quindi la prima cosa da fare è la radicale eliminazione e semplificazione di una serie di norme sostanziali e procedurali complesse e contraddittorie, che rallentano i processi e paralizzano l'amministrazione».

Quali norme, ad esempio?
«L'esempio più emblematico è il reato di abuso di ufficio, che ha creato la cosiddetta amministrazione difensiva, per cui nessun sindaco o assessore firma più con tranquillità, o non firma affatto. E gli investitori italiani e stranieri preferiscono produrre in altri Paesi».

Lei si è espresso anche per la inappellabilità delle assoluzioni in primo grado, idea rilanciata da Silvio Berlusconi. Come la spiega a un italiano comune? Difesa e accusa non debbono essere sullo stesso piano, e quindi avere identica possibilità di ricorso in appello?
«No, non possono essere sullo stesso piano. La prova della colpevolezza grava sull'accusa, e deve sussistere al di là di ogni ragionevole dubbio. Se un giudice ha già dubitato al punto da assolvere, o quel magistrato è irragionevole, e va cacciato via, oppure è sbagliata la norma. Facciamo un esempio: un imputato viene assolto dopo mesi di udienze, dove i giudici hanno ascoltato gli investigatori, i consulenti, i testimoni. Ebbene, oggi quello stesso imputato può esser condannato in appello dopo poche ore di discussione senza nuove prove a suo carico, solo sulla base dei verbali del dibattimento nel quale è stato assolto. Non mi pare ragionevole».

Leggo ancora dal suo libro: «In un'ottica di riforma, le pene non devono essere aumentate, semmai diminuite». Lei è anche favorevole alla depenalizzazione dei reati minori. Ma Fdi, nelle cui liste lei si candida, è uno dei partiti storicamente favorevoli all'aumento e all'inasprimento delle pene. Ne ha parlato con Giorgia Meloni?
«Non siamo entrati nello specifico, ma al dibattito organizzato da Atreju tra la ministra Cartabia e me questa mia convinzione è emersa, e Giorgia Meloni, che era presente, la conosce bene».

Come spiega ad un elettore di destra che le pene debbono essere diminuite?
«Le pene devono esser diminuite perché devono esser rese certe e devono essere eseguite. Per un ladro che rubi in tre case diverse oggi il codice prevede trent' anni di reclusione, ma il giudice gliene dà uno e mezzo con la condizionale e il colpevole non sconta neanche un giorno. Io dico: la legge può prevederne solo dieci, ma quelli che il giudice irroga devono essere scontati, salvo eventuali riduzioni per buona condotta. E per i reati più piccoli e non depenalizzabili le pene possono esser convertite, ma anch' esse devono essere eseguite».

Convertite in che modo?
«Oggi se uno imbrattai muri dei palazzi rischia sei mesi, ma anche qui il giudice gli dà la condizionale e tutto finisce lì. Io dico: quel condannato non deve andare in prigione, ma deve pulire le strade per un anno. E se non lo fa, allora scattano le manette. Questa era la filosofia della pena nel progetto della Commissione ministeriale perla riforma del codice penale da me presieduta anni fa, che però è rimasto nel cassetto».

Il consumo e il possesso di droghe leggere sono reati minori? Lei è liberale e molti liberali chiedono la liberalizzazione di queste sostanze.
«Di recente ho assistito ad un esame, condotto da un grande neurologo, dove si vedevano le alterazioni dell'encefalo a seguito dell'assunzione di una sola dose di hashish. Le droghe cosiddette leggere non sono solo dannose al cervello, ma costituiscono il primo passo verso l'assunzione di quelle pesanti: se è vero che non tutti quelli che fumano hashish passano all'eroina, è vero che tutti quelli che assumono eroina hanno iniziato con l'hashish».

 

Niente depenalizzazione né liberalizzazione, quindi.
«Ho trattato con i tossicodipendenti per quarant' anni, e so quanto sia complesso e doloroso il mondo loro e dei loro genitori. Occorrono soprattutto strutture di recupero e di assistenza medica e psicologica, mala depenalizzazione costituirebbe un incentivo allo spaccio. E la liberalizzazione comporterebbe l'arrivo in Italia di tutti i tossicodipendenti che vivono in Paesi dove la droga è illegale, come accadde in un cantone svizzero parecchi anni fa».

L'introduzione del vincolo di mandato, per contrastare il fenomeno dei parlamentari voltagabbana, torna spesso nei discorsi dei leader del centrodestra. Lei sarebbe favorevole?
«In linea di principio no, ma i cambiamenti di schieramento cui abbiamo assistito sono stati tali e tanti da convincermi che qualcosa deve cambiare. In fondo chi vota un candidato vota per il programma del suo partito, e se l'eletto in corso d'opera cambia idea è lui a tradire l'elettore. Dovrebbe dimettersi, non cambiare casacca».

In questa fase il dibattito sulla riforma della Costituzione riguarda soprattutto l'elezione diretta del presidente della repubblica. Crede che sia possibile una grande riforma come quella voluta in Francia da Charles De Gaulle, che segnò la fine dei governi deboli e l'inizio del "semipresidenzialismo"?
«Credo che il nostro sistema abbia mostrato tali e tante criticità da dover essere mutato. Tanti governi, alcuni pessimi come il Conte 2, altri buoni come quello di Draghi, non hanno avuto una legittimazione elettorale. Da dieci anni si vive nell'emergenza situazionale, il cittadino pensa che il suo voto sia ormai inutile e se ne disaffeziona. In più c'è bisogno di stabilità. La Francia ha adottato una Costituzione semipresidenziale nella grave crisi innestata dalla guerra in Algeria, e sotto l'impulso di uno statista come De Gaulle. Da noi la situazione è un po' diversa, ma credo che dovremmo adottare le stesse misure. E poiché non mi pare che la Francia sia una dittatura, le obiezioni sul punto mi sembrano "bêtises", sciocchezze».

Chi deve riscrivere la Costituzione? Glielo domando perché c'è chi chiede che non sia il parlamento a farlo, ma una nuova assemblea costituente, da eleggere col sistema proporzionale.
«Anch' io credo che, piuttosto che una bicamerale, sarebbe meglio un'assemblea costituente, composta di un numero limitato di saggi, eletti col sistema proporzionale e non rieleggibili in Parlamento. È la proposta della Fondazione Einaudi, cui mi onoro di appartenere».

A proposito di Einaudi: a lei, liberale, che effetto farà vedere sulla scheda elettorale, accanto al suo nome, un simbolo con la fiamma?
«Proprio nessuno. Io sono visceralmente contrario a ogni dittatura e metto fascismo e comunismo sullo stesso piano. Ma la fiamma non ha niente a che vedere con Mussolini. In ogni caso mi identifico con la bandiera italiana, e da buon veneto con quella della mia regione».

Sventolala bandiera del Veneto anche quando chiede l'autonomia?
«Certamente. Malgrado ciò che spesso si sente, l'autonomia non affievolisce il sentimento nazionale, ma lo rafforza, soprattutto quando le regioni hanno tradizioni culturali e storiche diverse. Germania e Stati Uniti sono addirittura stati federali, eppure il patriottismo è indiscusso. Aggiungo che nel trevigiano, la mia provincia, il tricolore è venerato: questa è la terra del Piave, del Grappa e del Montello. Eppure i cittadini hanno votato in massa a favore dell'autonomia». 

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