Toghe scatenate contro la politica

di Daniele Capezzonedomenica 20 luglio 2025
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Ci sono cose che tutti sappiamo ma che raramente esplicitiamo. O perché le diamo per scontate, o perché – pessimisticamente – le riteniamo una parte ormai immodificabile del “paesaggio” italiano. Poi però, in alcune giornate cruciali, la regia del caso si incarica di svelarle in modo spettacolare. Si prenda la polemica rovente delle toghe contro il guardasigilli Carlo Nordio, oppure la faccenda del nuovo assalto della Procura di Palermo contro Matteo Salvini, con l’avventuroso ricorso diretto in Cassazione (saltando il secondo grado) di cui Libero vi ha parlato ieri.

Quest’ultima mossa è oggettivamente bizzarra: ardita giuridicamente e insostenibile politicamente. Anche i bambini hanno capito che una maggioranza schiacciante degli italiani è favorevole a una linea rigida nel contrasto all’immigrazione illegale. E – di nuovo – anche i bambini hanno capito il tasso di politicità dell’attacco giudiziario in corso da anni su questo tema contro il leader leghista. E allora? E allora ecco la cosa – si diceva – che tutti sappiamo ma che ora non può essere più celata. Ieri numerosi giornali, sia quelli favorevoli (come noi) alla riforma della giustizia che sta procedendo in Parlamento sia quelli nettamente contrari (quasi tutti gli altri) hanno serenamente collegato – nelle loro analisi, commenti e retroscena – il nuovo attacco a Salvini e le parole durissime volate contro Nordio proprio al fatto che la riforma della giustizia stia marciando verso il traguardo.

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Va segnalato (in positivo) un assai condivisibile pezzo sul Corriere della Sera di Francesco Verderami, che, con elegante ironia, parla di “coincidenza” a proposito delle nuove battaglie scatenatesi dopo il naufragio di una trattativa sommersa per attenuare una delle novità più sgradite alla magistratura associata (la riforma del meccanismo di elezione del Csm). Mentre (in negativo, as usual) spicca l’omelia su Repubblica del predicatore infiammato Massimo Giannini. Cito fior da fiore per dare l’idea del tono: la «compiaciuta e rancorosa protervia» di Nordio, la «gioia feroce» con cui il governo sta realizzando le «pseudo-riforme», il «piano di manomissione delle garanzie costituzionali», e la «macelleria repubblicana». Fa caldo, direte voi: ed è indubbiamente una delle spiegazioni possibili per tanto furore. Ma lasciamo da parte questi toni e le opposte opinioni in campo. Resta il fatto che la discussione pubblica sia centrata su questa sequenza logica e cronologica: la riforma della giustizia può avere semaforo verde? E allora si riaccende lo scontro (verbale contro Nordio e direttamente giudiziario contro Salvini).

Ora – siccome non vogliamo querele – qui ci guardiamo bene dall’attribuire questa intenzione a qualsiasi magistrato. Ci limitiamo a registrare come il dibattito politico e mediatico italiano dia per acquisito – a torto o a ragione – questo assunto: siccome stavolta la riforma della giustizia forse si fa davvero, allora è da mettere nel conto il fatto che ci siano colpi di coda giudiziari. Ecco: è il caso di dire con chiarezza (riferiamoci ai media e ai commentatori, insomma a noi stessi, così ci risparmiamo conseguenze giudiziarie) che un accostamento del genere significa che noi tutti abbiamo “introiettato” uno stravolgimento dello stato di diritto, della separazione dei poteri, dei confini che tutti dovremmo conoscere tra chi fa le leggi (il Parlamento) e chi non ha il potere di farle (i magistrati). La verità è semplice e squadernata sotto i nostri occhi. Sono trent’anni (contabilizzando solo la cosiddetta Seconda Repubblica) che discutiamo di riforma della giustizia. Proprio ora che dalla guerra delle parole, da un’estenuante logomachia, si è finalmente passati – anche a buon ritmo – al voto parlamentare dei testi di riforma, allora – zac – la guerra giudiziaria riparte. Magari è solo un caso, o magari no. Ma tutti ne parlano (e ne parliamo) come se il nesso causale fosse scontato.

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E allora – più che mai – le vicende di questi giorni devono rappresentare un potente incoraggiamento al governo e alla maggioranza a procedere. Non è più tempo di “trattative”. I testi sono quelli (sulla separazione delle carriere e sull’elezione del Csm), c’è solo da ultimare i quattro passaggi parlamentari e poi da affrontare il referendum. Tutti sappiamo cosa sia successo in Italia da decenni: governi caduti o resi fragili a seguito di inchieste (e la cosa non ha riguardato solo esecutivi di centrodestra), e una costante pretesa di contestare a Parlamento e Governo il diritto-dovere di scrivere norme che non fossero preventivamente ritenute “accettabili” dalla parte maggioritaria della magistratura. Questo anomalo rituale deve fini re.

Ormai sappiamo bene come siano divisi gli elettori su questa materia. C’è una prima componente (minoritaria ma consistente sia in Parlamento che nel paese, e fortissima nei media) che, senza girarci troppo intorno, difende a prescindere il “partito dei pm” e auspica esiti apertamente giustizialisti, pur invocando obiettivi desiderabili come il contrasto al crimine, ma spesso piegandoli verso una sistematica negazione delle garanzie costituzionali delle persone indagate.

C’è poi un’altra componente (forte nell’arco parlamentare ma ultraminoritaria nel paese) che si ricorda del garantismo solo quando è vittima di un torto (o quando si tratta di difendere gli amici). E c’è infine una terza componente (che nei sondaggi appare nettamente in maggioranza nel paese) che la riforma della giustizia la vuole per davvero, e la vuole per tutti. È finalmente ora di dare voce a questa Italia maggioritaria.

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