Una volta ci pensavano le “procure d’assalto”, ora provvede la Corte di Cassazione. Il salto è enorme: il procuratore ideologizzato può decidere la sorte di un singolo caso, gli ermellini creano le premesse per bloccare ovunque l’efficacia di un provvedimento o di una strategia del governo. Con ogni probabilità è stata originata da una scelta loro, dei giudici della suprema corte, la brutta storia dei due turchi arrestati mercoledì a Viterbo, poco prima che iniziasse la festa di Santa Rosa e trovati in possesso di sessanta pallottole, due pistole e una mitraglietta.
La vicenda ruota attorno a un nome che in Turchia fa paura: Boris Boyun, detto Baris, nato nel 1984 a Beyoglu, distretto di Istanbul. È uno dei boss della mafia turca, capo di un gruppo che ha lunghe diramazioni internazionali. La polizia italiana lo ha catturato il 22 maggio del 2024 proprio a Viterbo, al termine di un’operazione condotta insieme alle autorità turche ed elvetiche, in cui sono state arrestate 19 persone.
È stato subito rinchiuso in cella a Viterbo, ma non è più lì da mesi. Lo hanno spostato in un’altra struttura, il cui nome non è noto al pubblico: Boyun è sottoposto al “41 bis” e il suo trasferimento è stato tenuto segreto. Pure Roberto Saviano, nella sua ricostruzione di pochi giorni fa, dimostra di non esserne al corrente. Forse non lo sapevano nemmeno i turchi arrestati il 3 settembre. Anche se non rispondono agli interrogatori e ogni ipotesi resta aperta, gli inquirenti si stanno convincendo che i due non fossero lì per fare un attentato, ma per trovare un modo di liberare Boyun. Questioni di criminalità turca, non di jihad.
L’uomo è inseguito da quattro mandati di arresto emessi dal tribunale di Istanbul, dove è indagato per associazione per delinquere, omicidio volontario e rapina con armi da fuoco «commessa sfruttando il potere intimidatorio creato dall’associazione criminale», come si legge nelle carte della magistratura italiana. Reati commessi nel 2022 e 2023. La Turchia ha chiesto la sua estradizione e il ministero di Carlo Nordio si è detto favorevole.
Viterbo, sventato presunto attentato alla festa con Tajani: arrestati due turchi
Un attentato sventato? A poche ore dal tradizionale trasporto della Macchina di Santa Rosa a cui ha partecipato anche il...Era tutto pronto, a dicembre la Corte d’appello di Roma aveva dato il via libera e Boyun stava per essere riportato in Turchia. Finché la Cassazione, lo scorso 12 marzo, non ha fermato tutto, ritenendo le patrie galere un posto pericoloso per lui. Come altri criminali turchi, Boyun aveva dichiarato di essere curdo e perseguitato politico, sapendo che avrebbe potuto tornargli utile.
La Corte d’appello di Roma non gli aveva creduto. L’anno prima, il giudice di secondo grado di Bologna si era opposto a un’altra procedura di estradizione che lo riguardava, e la Cassazione aveva condiviso la scelta. Da allora, però, erano emerse ulteriori accuse e peril capomafia turco, agli arresti domiciliari, era arrivata una nuova richiesta di custodia cautelare in carcere, su richiesta della procura di Milano. Così i giudici della capitale hanno potuto scrivere che «l’odierno ricercato è il capo indiscusso di un’associazione a delinquere che opera in tutta Europa di elevatissima pericolosità», specializzata in «detenzione e porto abusivo di armi anche clandestine e traffico internazionale di armi, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, omicidi, stragi, traffico di sostanza stupefacente, riciclaggio, falsificazione di documenti di identificazione, ricettazione e autoriciclaggio».
Interrogato nel luglio del 2024, Boyun aveva detto di essere sposato a due donne, entrambe curde, cosa che la religione islamica gli permette, di essere perseguitato per l’appartenenza al partito curdo e di essere giunto in Italia per ottenere protezione internazionale. Ovviamente, si era opposto all’estradizione in Turchia.
La Corte d’appello di Roma è giunta invece alla conclusione che l’uomo, che peraltro non parla una parola di curdo, «non sia affatto di etnia curda, né appartenga alla religione islamica alevita che, a suo dire, subirebbe una sorta di persecuzione da parte degli islamici sunniti». Sulla scia dell’indagine milanese, sostiene che «egli è a capo di un’organizzazione criminale armata che forse potrebbe essere equiparata, con tutti gli adattamenti del caso, alle Brigate Rosse italiane». E si ritiene soddisfatta dalle «dettagliatissime indicazioni» fornite dalla Turchia «in ordine all’istituto penitenziario ed al trattamento che sarà riservato all’odierno estradando». Via libera, quindi al suo trasferimento nelle carceri turche.
Non la pensano così, però, i giudici della Cassazione, ai quali gli avvocati del turco hanno presentato ricorso. A suo modo, la loro sentenza è esemplare. I precedenti e la pericolosità del capobanda non sono ritenuti interessanti. Anzi, si sostiene che «la capacità criminale di Boris Boyun (...) non assume alcun rilievo in questa sede». Si smontano gli argomenti con cui la Corte di appello ha escluso che Boyun sia curdo e musulmano, spiegando che non reggono il confronto «con la ricca produzione documentale fornita dalla difesa a dimostrazione del contrario».
Citando Amnesty international e altre organizzazioni, gli ermellini scrivono poi che in Turchia vi è «sistematica violazione, da anni, dei diritti umani e delle libertà fondamentali, (...) non solo per i detenuti, ma anche per coloro che appartengono all’etnia curda o a partiti di opposizione». Boyun rischia quindi «trattamenti disumani e degradanti» e la sentenza d’estradizione viene annullata.
Per la Turchia, è una sorta di “dichiarazione di guerra” da parte di un Paese con le cui istituzioni sinora ha avuto un ottimo rapporto: difficile che non ci siano conseguenze. Per l’Italia, significa dover mantenere in cella un criminale pericoloso, i cui probabili complici si sono presentati armati a un evento di massa come la festa religiosa di Viterbo, e chissà cosa sarebbe successo se un affittacamere insospettito non avesse avvertito la polizia. Per la criminalità internazionale, il conforto di trovare qui, nel nostro Paese, tutele giudiziarie che altre democrazie mai le garantirebbero.