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Open Arms, ecco tutte le tappe di 6 anni di calvario

Dallo sbarco negato nel 2019 al "tradimento" dei Cinquestelle che mandarono a giudizio il leader della Lega. Fino alle assoluzioni dello scorso anno e di ieri
di Pietro Senaldigiovedì 18 dicembre 2025
Open Arms, ecco tutte le tappe di 6 anni di calvario

4' di lettura

Non si dica che ha trionfato la giustizia. Tenere appeso un uomo per un «fatto che non sussiste», con la minaccia di una condanna a nove anni di reclusione per un reato abietto come il sequestro di persona, perché questo hanno stabilito e ribadito i giudici, è un abominio.

Quando la vicenda Open Arms ebbe inizio, nell’agosto 2019, Matteo Salvini era ministro dell’Interno del primo governo di Giuseppe Conte. La sua linea politica era improntata alla massima fermezza nella lotta all’immigrazione illegale. Si era nella piena stagione politica dei porti chiusi. Per questo il leader leghista negò, per 19 giorni, lo sbarco ai 150 migranti a bordo della nave della ong spagnola, cercando un approdo fuori dall’Italia. Non appena il governo trovò l’accordo con Barcellona, per portare in Spagna i clandestini, intervenne la magistratura e ordinò che fossero tutti sbarcati a Lampedusa. L’episodio ha un precedente, quando l’anno prima vennero trattenuti a bordo per una decina di giorni, anche in questo caso fino a ordine della magistratura, i migranti salvati dalla Diciotti, imbarcazione della Guardia Costiera. In entrambi i casi, i pm incriminarono Salvini per sequestro di persona e rifiuto d’atti d’ufficio.

Le similitudini però finiscono qui. Nel 2018 infatti il governo gialloverde era solido e il Senato negò l’autorizzazione a procedere contro il leader leghista. L’anno successivo però era cambiato tutto.
Quando si arrivò a votare in Aula, la Lega aveva già fatto cadere Conte ed M5S si vendicò votando a favore del processo. Memorabile l’intervento in Aula di Matteo Renzi, il creatore del governo giallorosso, che fece il suo unico discorso a favore della magistratura, sostenendo che toccava alle toghe e non ai parlamentari esprimersi. Devastante, in bocca all’autore di “Il Mostro”, un libro che è un atto d’accusa contro la malagiustizia.

La giustificazione fu che nel caso Diciotti la decisione era stata collegiale e nel caso Open Arms no. Ma questo non significa nulla, perché per coerenza il Senato avrebbe dovuto o mandare a giudizio con Salvini anche Conte e il ministro delle Infrastrutture, il grillino Danilo Toninelli per i fatti del 2018, oppure salvare il ministro dell’Interno per quelli del 2019. Ahinoi però, finché la politica si servirà della magistratura per regolare i propri conti, non avremo mai una politica degna di questo nome né una magistratura immune dal sospetto di essere in parte politicizzata.

Il processo costrinse Salvini ad andare a Palermo per 24 volte da imputato, con palesi danni di immagine per l’Italia, mentre da sinistra qualcuno arrivò a sostenere che l’incriminazione avvantaggiava Matteo, perché gli consentiva di speculare politicamente facendo la vittima. L’accusa sosteneva di non fare un processo alla politica ma a un comportamento che aveva leso la libertà degli individui mentre la difesa sosteneva che il ministro si fosse mosso nell’ambito della propria discrezionalità governativa. Nelle more del processo, ci fu poi un fatto clamoroso. Fu resa nota un’intercettazione dell’allora capo del sindacato delle toghe, Luca Palamara, mentre rispondeva «comunque va attaccato» a un collega che sosteneva che Salvini non avesse commesso alcun reato. Non è una frase mai entrata in alcun atto processuale del caso Open Arms, ma è fortemente politica e ha comportato una delegittimazione totale del giudizio presso l’opinione pubblica.

A risolvere la questione parve arrivare la sentenza del dicembre dello scorso anno, che stabilì che Salvini è innocente perché «il fatto non sussiste», in quanto non c’è il reato contestato. Un modo elegante per dire che la tesi dei pm non stava né in cielo né in terra. Non solo, il tribunale scrisse anche che, semmai, il sequestro di persona era stato attuato dal comandante della Open Arms, che si era intestardito a fermarsi davanti alle coste italiane anziché portare i migranti altrove. Naturalmente l’indicazione a danno della ong fu ignorata dalla Procura. Dignità professionale, il rispetto per i cittadini, un minimo di considerazione per la politica, pur nella sacrosanta separazione dei poteri avrebbe dovuto suggerire a tutti di finirla lì. Invece, all’inizio di quest’anno, la Procura di Palermo ricorse direttamente in Cassazione, saltando il giudizio d’appello, sostenendo che i fatti erano chiari ma le toghe che avevano discolpato Salvini non avevano saputo interpretare le leggi. Ai più parve un accanimento, oltre che una sfiducia nella competenza dei colleghi del tribunale. Qualcuno parlò anche di intenti vessatori nei confronti dell’accusato, specie dopo che la procura presso la Cassazione, nelle settimane scorse aveva ancora provato a spiegare con parere scritto ai colleghi pm siciliani: «Non emergono elementi per dire che Salvini abbia commesso reati». Finalmente ieri i giudici della Suprema Corte hanno ribadito, stavolta definitivamente, quel che tutte le persone di buon senso sapevano già: il leader della Lega non è un sequestratore. $ il minimo, ci evita di farci ridere dietro dal mondo e non ci fa passare agli occhi dei trafficanti di uomini come l’unico Paese del globo che persegue i governi che cercano di fermare l’immigrazione illegale anziché i clandestini. Ora possiamo dire che la vicenda è finita bene, ma hanno pagato solo gli innocenti. Gli italiani, a cui il giudizio è costato in termini monetari e materiali, visto che gli inquirenti avrebbero potuto impiegare il loro tempo stipendiato a perseguire reati veri e non congetture. E Salvini. Non è un mistero che il vicepremier leghista, senza questo processo, sarebbe da tre anni alla guida del Viminale. Non pagherà chi ha sbagliato l’impianto accusatorio; e va bene così, non si pretendono neppure le scuse, non siamo mica Francesca Albanese.