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La Apple "paga poche tasse". Scandalo? No, esempio da imitare

Il NY Times accusa il colosso hi-tech di evitare legalmente le imposte. Giusto così, l'azienda fa gli interessi degli azionisti

Giulio Bucchi
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Il New York Times scopre la globalizzazione, e in un lunghissimo articolo domenicale fa l'elogio della concorrenza tra stati e mercati sul piano fiscale, anche se il suo intento era l'opposto: criminalizzare le corporation che perseguono le strategie più efficaci per ridurre il peso delle tasse sui loro profitti in modo assolutamente legale. Per fare il massimo clamore, il quotidiano pro-tasse ha sbattuto in prima pagina la Apple, che è l'azienda del momento, quella dai maggiori profitti e che è diventata la prima al mondo per capitalizzazione di Borsa, grazie ai suoi successi digitali (iPad, iPod, iTunes). "Come Apple elude miliardi in tasse", spara il titolo, per poi spiegare "Dirottando i guadagni in regioni a più bassa tassazione". E' l'acqua calda. E' come funziona l'economia. E' come deve agire ogni azienda che rispetta il dovere di fare gli interessi dei propri azionisti, e che per investire miliardi nelle innovazioni che beneficiano se stessa, consumatori e mercato si deve preoccupare di fare più profitti possibili. In modo da tenere a bada la concorrenza, che guarda caso fa lo stesso. D'altra parte, perché i diversi Stati all'interno degli stessi Stati Uniti attuano politiche tributarie diverse? Perché così  il Nevada, che insieme ad altri 8 Stati non ha una tassa sui redditi personali e delle imprese, ha "convinto" la Apple nel 2006 a fondare a Reno, città a poche miglia dalla California, una sussidiaria, la Braeburn Capital, con il compito di gestire il cash generato dalla società. Grazie al fisco del Nevada, la Apple non ha versato alle esose casse della California l'imposta statale dell'8,84% su una bella fetta dei 2,5 miliardi in interessi che sono stati realizzati in questi 5 anni dalla società Braeburn.  di Glauco Maggi twitter @glaucomaggi Leggi l'articolo integrale sul blog Diari d'America

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