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L'Italia dei Livori: il partito di Tonino va in fumo

Il leader de

Maglie: Di Pietro rompe col Pd ma i suoi colonnelli esitano e lui è sempre più solo

Andrea Tempestini
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di Maria Giovanna Maglie Lui quelli chiunque siano, pure i compagni di strada de Il Fatto, li sfascia; lui li strappa, li piega e se li mette in tasca, siano una pagina di giornale o critici delle sue scelte; lui altro che scioglimento, «col culo che mi sono fatto»; lui sono solo normali discussioni, altro che fibrillazioni, contestazioni e perfino abbandoni; lui con Grillo farebbe comunella, ma riceve picche, ha trovato uno che strilla più forte e corre da solo; lui a Vasto c'era una volta una foto che oggi è sbiadita, e chissà come la mettiamo col Vendola del rinvio a giudizio con il bilancino del moralismo un tanto al chilo. Lui, Antonio Di Pietro, chissà stavolta come se la cava, e comunque ha proprio ragione quel saggio di Fabrizio Cicchitto, che dice «non è sguaiato e impresentabile, è eversivo, ma non da oggi», e così rifila un paio di stoccate anche agli a lungo silenti, e ora nuovi indignati,  che dimorano sul Colle e hanno reagito con giustificato fastidio agli attacchi pesanti di Di Pietro a Napolitano. A chi tocca non si ingrugna, si dice a Roma. Vediamola da vicino la normale discussione nell'Italia dei Valori, partitino che nacque da un gesto di furbizia contadina, che si qualificò nel protagonismo smodato politico di un gruppo di magistrati, che si incarnò ahinoi nel forcaiolismo mai curato dell'italica mentalità, che oggi paradossalmente si vede disarcionato e scavalcato dai grillini ma anche dagli scontenti in più di uno schieramento proprio mentre contesta nel merito oltre che strillando le misure anti crisi di Mario Monti. È lui, Di Pietro, ad avviare le danze con quel  «ce ne andiamo noi» dall'alleanza col Pd, ma il giorno seguente dice esattamente  l'opposto il suo capogruppo alla Camera, quell'allegrone della dialettica che è Massimo Donadi: «Non ho alcuna intenzione di rompere con il Pd, la mia è una posizione non isolata». Segue l'annuncio del senatore Elio Lannutti, presidente di Adusbef, che spiega di non volersi ricandidare tra le fila del partito di Di Pietro: «Non si può continuare ad attaccare le istituzioni tutti i giorni. Abbiamo fatto tanto l'anno scorso per portare Bersani a Vasto, e ora non passa giorno senza che si attacchi l'alleato». Incalza il senatore ex girotondino Pancho Pardi: «Nel partito è aperta una discussione sul rapporto col Pd. Noi vorremmo una coalizione Pd-Idv-Sel, ma molti democratici  sconfessano la foto di Vasto. I punti di vista sono due: Di Pietro dice “se sono loro a non volerci, bene. Diciamolo prima noi che siamo pronti a giocare da soli”, e quello di Donadi, che pensa di convincere il Pd a tenere l'atteggiamento di un alleato coerente. Il dissenso sugli attacchi a Napolitano è una componente chiave dei rapporti col Pd». Hai detto niente, un dissenso bello chiaro sulla strategia piantato nel cuore di un partito alla Kim il Sung, con il leader unico signore, padrone e divinità. È la prima volta nella storia del partito che un personaggio della nomenklatura, quale è Donadi, osa esprimere una opinione dissenziente. Lo conferma indirettamente proprio lo scapigliato Pardi quando dice che «nel partito è molto forte la tendenza a riconoscersi nelle posizioni del presidente, discutere sì al chiuso delle riunioni ma poi non raccontare all'esterno il proprio punto di vista». Roba che il centralismo democratico del Pci che fu sembra democrazia goliardica al confronto. Ma il re a quanto pare è nudo, se Lannutti, che con l'Idv non intende candidarsi una seconda volta, gelidamente spiega che Di Pietro dovrebbe darsi una calmata, scegliere toni diversi, tendere a tenere i suoi uniti, visto il momento difficile, invece di ricorrere a minacce del genere «o fai questo o non ti ricandido». Ma non sarebbe il Di Pietro che lui «li sfascia tutti». Solo che sul palcoscenico dei prepotenti è arrivato un formidabile competitor, quel Beppe Grillo che  Di Pietro finge che sia «l'amico che sento spesso», ma che potrebbe essere la sirena che lo porta verso il precipizio, inducendolo all'avventura del definitivo distacco dal Pd, perfino, nonostante le proteste sul «culo che si è fatto», a sciogliere un Idv divenuta zavorra o ritenuta tale per creare una «lista dei cittadini» più movimentista, più alla moda nell'attuale marmellata del panorama politico. Vedremo se i nervi tengono fino a settembre quando a Vasto si riunirà il partito. Con Grillo, che dice di non volerlo, con Vendola, che ha i guai suoi nonostante il silenzio generale, o con Bersani alle condizioni più onerose per un cavallo pazzo? Chiarimenti si attendono, vero rischio il declino.

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