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Contro la Juve e Conte non è giustizia sportiva, ma corte marziale

L'editorialista di Libero: avvocati con le mani legate e pentiti a raffica. Nei processi del calcio è l'accusato a dover dimostrare di essere innocente

Giulio Bucchi
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Una sera, verso la mezzanotte, nell'occhieggiare dalla finestra, un vicino di casa mi vede fermo davanti a un bancomat. Sto portando il mio vecchio cane, un bretone, a fare quattro passi prima di andarcene a letto. Il bretone è molto anziano e mi ha imposto una sosta perché il suo respiro si è fatto pesante. La mattina successiva si scopre che quel bancomat è stato svaligiato. Il vicino, un signore lunatico che non mi può soffrire, si precipita dai carabinieri e mi denuncia. Viene aperta un'indagine giudiziaria e finisco di fronte a un magistrato della procura della Repubblica. Grazie al cielo, quel pubblico ministero non riesce a provare che ho commesso quel reato e tutto finisce lì.  Perché mi sono salvato? Perché anche da noi, come in tutti in paesi civili, vale il principio che è l'accusa a dover provare la colpa di un cittadino. Mentre non vale il principio opposto, ossia che tocca all'accusato dimostrare la propria innocenza. Tuttavia in Italia è così che si comporta la cosiddetta giustizia sportiva, per lo meno quella che si occupa dei reati commessi nel mondo del calcio. In questi giorni, a Roma, sta accadendo proprio questo. E a me sembra che sia scandaloso.    Leggi l'articolo integrale di Giampaolo Pansa su Libero in edicola oggi, domenica 5 agosto

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