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Facci: Ingroia riesuma Borsellino per un pizzino alla Boccassini

L'ex procuratore di Palermo usa l'antimafia per racimolare voti

Eliana Giusto
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  di Filippo Facci    Falcone, Borsellino e l'erede auto-proclamatosi: è da anni che il casino doveva scoppiare, mentre è esattamente da 21 anni che Ilda Boccassini era caricata a molla. È esplosa ora, alla millesima usurpazione del nome di Falcone: le è sfuggito un «si vergogni» riferito appunto a lui, l'uomo che anche soffiandosi il naso precisa che «capitava anche a Falcone e Borsellino». Il resto della storia è ormai noto e miserevole: Ingroia non ha potuto tacere - stavolta -  ed è passato al contrattacco di una magistrato-simbolo alla quale sa benissimo di stare sulle palle da una vita. Accade, più o meno, da quando l'osceno marketing del defunto si è fatto definitivamente insopportabile, da quando cioè l'antimafia piagnens ha trasformato lutti e «vicinanze» in rendita elettorale. Ma ricordiamo la sequenza in sintesi: 1) Ingroia spara il millesimo paragone tra se medesimo e Falcone, testuale: «È già successo ad altri magistrati, a cominciare da Giovanni Falcone, forse non è un caso, che... Falcone, quando iniziò una collaborazione con la politica, le critiche peggiori le ha ricevute dalla magistratura, ed è un copione che si ripete»; 2) la Boccassini s'indigna per il paragone tra Falcone e «la sua piccola figura di magistrato», la cui distanza «è misurabile in milioni di anni luce»; 3) Ingroia sbotta, si dichiara dolosamente frainteso (invita tutti a riascoltare la sua frase, che pure è chiarissima) e dice che a vergognarsi dovrebbe essere lei, che in questo modo «prende parte alla competizione politica». Già che c'è, spara nel mucchio una frase da concorso esterno in linguaggio mafioso: «Mi basta sapere che cosa pensava di me Paolo Borsellino e che cosa pensava di lei»; 4) si aggiunge alla querelle la sorella di Falcone, Maria, che dice: «Ingroia usa Giovanni per i voti, non lo permetto»; 5) Ingroia le risponde che a usare Giovanni, per i voti, è stata lei, ma in compenso a Bruxelles manco l'hanno  eletta; 6) si aggiunge infine anche Salvatore, fratello di Paolo, che s'incazza con tutti: «Lascino il nome di mio fratello fuori dalla campagna elettorale» (lo dice lui, sì).  Ma pare difficile lasciarli fuori, Falcone & Borsellino, anche perché sulla scia di entrambi è imperniato il macabro carnevale che da vent'anni ne fa sfruttamento editoriale, giudiziario e ora anche politico, direttamente. Le cialtronate del parolame antimafia, le fiaccolate, i cortei luttuosi, gli alberi Falcone, le vie e le piazze e le scuole, le idiozie delle agende rosse, gli appelli, i video, la retorica, le urla, i pianti, la memoria scaraventata nel canaio: tutto trova compimento in una lista che una buona fetta di questo cascame lo raccoglie e infine lo candida. Figli, parenti, giornalisti: la lista di Ingroia né è ricettacolo, con l'aggiunta dell'uomo che più di ogni altro tradì Giovanni Falcone: Leoluca Orlando.   E se è stra-noto che il giovane Ingroia non ebbe mai rapporti con Falcone  - noto per la sua intransigenza coi falsi pentiti: figurarsi che cosa avrebbe detto di un Massimo Ciancimino - il rapporto tra Ingroia e Paolo Borsellino è invece dato per consolidato, anzi, Ingroia è nientemeno che «allievo prediletto e miglior erede di Borsellino», scrisse Marco Travaglio nella prefazione di un libro orribile. Non è chiaro, in realtà, quanto fosse effettivamente prediletto: i noti e documentati blogger Enrico Tagliaferro e Antonella Serafini a dir il vero hanno già dimostrato che l'espressione «pupillo» di Borsellino, riferita a Ingroia, andrebbe presa assai con le molle. A ben vedere, non una sola confidenza di Borsellino - tra le presunte, vere o false, evidenziate nella stessa istruttoria sulla «trattativa» - pare essersi mai riversata appunto su un «pupillo» che non è mai stato nominato in documenti, agende o comunque non è mai stato destinatario di confidenze, pare. Parliamo del Borsellino che nei suoi ultimi giorni apparve sconvolto per quanto apprese da alcuni generali dei Carabinieri, o il Borsellino che si confidò con la moglie e coi magistrati Russo e Camassa: con Ingroia mai, nonostante fosse suo collega alla Dda. In un verbale del 3 maggio 2002, Agnese Borsellino - la moglie, appunto - raccontò di un incontro avvenuto il 29 giugno 1992 tra il marito e il pm Fabio Salamone: «Fra i tanti che vennero a trovare Paolo per il suo onomastico vi fu il magistrato di Agrigento Fabio Salamone. Rimasero nello studio in colloquio riservato per circa tre ore... Nel salotto c'erano altre persone, fra cui Antonio Ingroia e i miei genitori. Antonio si era lamentato perché Paolo non l'aveva fatto entrare nello studio dove era già iniziato il colloquio con Salamone». Il suo tutore morale l'aveva lasciato alla porta. Il pupillo non venne mai a conoscenza di niente: tanto che certe cose dovrà ricostruirle - se autentiche - vent'anni dopo. Oggi i pm raccontano che Borsellino sapesse della trattativa Stato-mafia e che strenuamente vi si oppose, al punto che Cosa Nostra decise di accelerare il suo omicidio: a Ingroia, però, non disse nulla. Non disse nulla a nessuno, invero. Così pure, quando Borsellino decise di riunirsi con i carabinieri in una caserma per parlare del procedimento «mafia e appalti», a Ingroia non disse una parola. Mai. Forse, ecco, voleva proteggerlo: come poteva fare un navigato magistrato, di simpatie missine, con un giovane sostituto da lui soprannominato «gobbetto comunista», in siciliano: 'u comunista immuruteddu».    

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