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Massimo Bossetti, rivolta in carcere dopo la sentenza su Yara Gambirasio: la clamorosa iniziativa dei detenuti

Giulio Bucchi
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Prima un singhiozzo, trattenuto a stento. Poi un altro e le lacrime che proprio non riesce a ricacciare indietro. Scoppia a piangere Massimo Bossetti, il muratore di 48 anni di Mapello condannato in via definitiva per l' omicidio di Yara Gambirasio. La sentenza della Cassazione, appellabile ora solo davanti alle corti europee, arriva di notte: sono circa le 22.30. Bossetti è in carcere, a Bergamo. Che di lì non uscirà mai più glielo dice la televisione. Dalle celle del penitenziario lombardo iniziano a levarsi delle voci, si fanno sempre più forti. Sono quelle dei suoi compagni, detenuti come lui, che gridano appena due parole: fuori, oltre quel cortile della casa circondariale, si sentono nitidamente. «Giustizia», urlano, «Libertà». Bossetti è disperato, un carcerato lo abbraccia, un altro lo conforta. I più fischiano e imprecano contro i giudici che hanno deciso il "fine pena mai" senza concedergli la super-perizia che chiedeva da anni. Che gli hanno negato tutti. I detenuti si stringono attorno a Bossetti, e già questo ha dell' incredibile. Perché in genere le regole non scritte del carcere raccontano una storia differente. Chi entra per reati così gravi, specie se legati ai minori, viene preso di mira: tanto che, succede, deve essere trasferito in qualche sezione speciale, per scampare al massacro dei compagni di gattabuia. «Je suis Bossetti» - Bossetti no. Per Bossetti la protesta è un fiume di solidarietà. Loro, i detenuti con cui ha condiviso gli ultimi quattro anni, lo credono innocente. Come innocente lo credono i tantissimi commenti che affollano i social network in questi giorni. Su Facebook pagine che si chiamano "Je suis Bossetti" o "Massimo Bossetti innocente" macinano indignazione, incredulità, scetticismo. Non vuol dire nulla, ovvio. La Giustizia si fa altrove. Non certo davanti a un computer. Però la decisione della magistratura di non prendere in considerazione un nuovo test del Dna, tanto sollecitato dai legali di Bossetti, scontenta parecchi. Lui non riesce a dormire. Passa la giornata di ieri tra un incontro e l' altro: vede la moglie Marita, il fratello Fabio, il cappellano Don Fausto. È un uomo provato: «Vorrei essere trasferito in un penitenziario dove posso lavorare. Per non impazzire chiedo di poter essere utile», dice. Lo riportano i giornalisti di Quarto Grado che lo seguono da sempre: «Oggi non ho più nulla, mi resta il pensiero dei miei figli e della mia famiglia». Una vicenda umana che non toglie niente al dolore per la morte di Yara, la ragazzina di 13 anni di Brembate di Sopra (Bergamo) scomparsa da casa il 26 novembre del 2010 e ritrovata cadavere esattamente tre mesi dopo in un Comune poco distante. «Ha vinto il sistema» - Yara ha diritto ad avere Giustizia. Ma la Giustizia, per funzionare, deve essere sgombra da dubbi. «Ancora una volta ha perso il diritto. Abbiamo osato andare contro il sistema e il sistema ha vinto», sono laconici anche gli avvocati di Bossetti, Claudio Salvagni e Paolo Camporini. La famiglia Gambirasio non parla. La solidarietà, pure nei loro confronti, deve essere totale: hanno perso una figlia e nel peggiore dei modi. Per colpa di Bossetti, dicono i tribunali. La verità processuale è bollata, resta l' amaro in bocca per quell' analisi ripetuta del Dna che non è stata ripetuta affatto. Che una procedura garantista avrebbe dovuto rifare senza opporsi prima di girare, definitivamente, le chiavi nella toppa di una cella a vita. di Claudia Osmetti

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