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Vittorio Feltri, la confessione: "Come è nato il mio amore per il Sud"

Maria Pezzi
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Pubblichiamo un capitolo del nuovo libro di Vittorio Feltri, L'Irriverente - Memorie di un cronista (Mondadori, pagg. 104, euro 17) disponibile in tutte le librerie. A dispetto di quello chemolti pensano, queste pagine dimostrano il legame e l'amore del direttore di Libero per il Meridione.  Visitai il Sud per la prima volta quando era appena finita la guerra. Ero molto piccolo, avrò avuto 5 anni, ma mi è rimasto impresso nella memoria il lungo viaggio per raggiungere lo zio Ernesto e la zia Nella. Quest' ultima era una delle sorelle di mia madre, la quale insieme a suo marito da Bergamo si era trasferita in Molise, a Guardialfiera, poiché lo zio, che era perito agrario e aveva una particolare abilità nell' amministrare aziende agricole, era stato chiamato in quella regione per governare un feudo molto ampio da un certo signor Baranello, latifondista che risiedeva a Campobasso ma era napoletano di origine. Da Bergamo raggiungemmo Milano e da qui salimmo sul treno Milano-Lecce. Viaggiavo in compagnia della zia Tina, la quale per me fu come una mamma. A un certo punto il convoglio si bloccò poiché le ferrovie nel dopoguerra erano state gravemente danneggiate dai bombardamenti. Ci comunicarono che c' era una specie di impedimento a proseguire e dovemmo scendere dal vagone per salire su un carro bestiame, che ci avrebbe condotti a Termoli, il primo comune del Molise. Fu durante quel pellegrinaggio che ebbi il primo impatto con qualcosa che fino ad allora mi era sconosciuto: il mare. Ne avevo sentito parlare, ma non lo avevo mai veduto. Mi imbattei in quella distesa azzurra mentre la zia Tina dormiva sulla paglia che fungeva da tappeto e il convoglio procedeva a ritmo costante. Un timido raggio di sole mi ferì le palpebre, spalancai gli occhi e restai stupefatto da quella straordinaria celeste visione. Una signora che era a bordo, forse notando la mia emozione, mi spiegò che quello era il mare. Lo guardavo. Una palla rossa si sollevava dalle sue viscere, lentamente veniva a galla e saliva come se qualcuno dall' alto la trainasse tramite un filo invisibile. Era l' alba. Dodici ore  -  Fu una trasferta simile a quella che compiono gli extracomunitari che intendono toccare il suolo europeo. Dodici ore di viaggio, in quelle condizioni, su un adulto pesavano tanto, poco però su un bambino che continuava a stupirsi di tutto ciò che intravedeva dal carrozzone di legno. Finalmente giungemmo a Termoli, tuttavia l' avventura non era ancora terminata: occorreva lasciare il vagone riservato alle bestie e prendere un treno diretto a Campobasso. Noi saremmo scesi prima, ossia a Larino, al fine di poggiare i sederi su un pullman scalcinato che ci avrebbe infine fatti approdare a destinazione. Rimembro che a un certo punto accusai delle fitte atroci al basso ventre: da troppo a lungo trattenevo la pipì, eppure non osavo lamentarmi né farmela addosso poiché non avrei sopportato di presentarmi agli zii con i calzoni sporchi. La casa della zia Nella era come un porto che ci accoglieva dopo tanto girovagare. Si trattava di un bel palazzo, situato nel cuore di Guardialfiera. L' opulenza era ovunque. Abbondanza di cibi, di servitù, di comodità. Eravamo fortunati perché noi avevamo il bagno, un vero e proprio lusso. Era una sorta di appendice dell' edificio, appiccicata al resto del fabbricato come fosse una scatoletta, segno che il cesso era stato aggiunto dopo. Il soggiorno in Molise si fece esaltante nel momento in cui lo zio Ernesto mi portò in campagna col biroccio, assoluta novità per me che vedevo i cavalli e i calessi passare ogni tanto da lontano in quel di Bergamo. Ricordo ancora il nome degli equini, Bellì e Amì. Ne ero affascinato e mi innamorai durante quella mia prima estate molisana anche un po' del Sud. Del resto, vivevo una situazione completamente diversa da quella consueta. Inoltre, lo zio era come un babbo, stavamo sempre insieme e mi spiegava tutto, pure riguardo i cavalli. «Vittorio, non dimenticarlo mai: non bisogna frustarli, bensì trattarli bene, perché questi animali qui sono nostri amici, ci portano in giro, fanno tanta fatica» era il suo monito continuo. Zio Ernesto mi teneva per mano e io mi sentivo più forte. Notavo che egli stesso era orgoglioso di menarmi con lui, mano nella mano, allorché doveva fare i suoi giri. Ci recavamo nelle masserie che dipendevano da lui e i proprietari nei confronti di mio zio che era l' amministratore avevano un atteggiamento di estremo riguardo, gli offrivano qualunque cosa, spesso anche le uova. Quando gliele porgevano, egli me ne faceva bere subito uno. Con uno spillo che teneva sempre nel taschino, lo zio praticava un buchetto sopra e uno sotto l' uovo e mi incitava a succhiarne il contenuto. Si andava in giro per le campagne fino a sera. Era piena estate e contemplavo le distese dorate di grano. Quello tenero è biondissimo, quello duro ha una venatura di nero sulle spighe, in alto. Pure questo me lo ha insegnato lo zio. E poi campi di canapa, di lino, ho quei paesaggi stampati nel cuore. Guardialfiera -  Mi fermavo a Guardialfiera anche tre mesi, senza mia madre che, essendo vedova, lavorava senza requie per mantenerci. Mi sentivo totalmente libero. Era una pacchia. Nessuno mi poneva limiti. Era il principio degli anni Cinquanta, non esistevano pericoli, neanche le auto c' erano da quelle parti. Inoltre, mi conoscevano tutti e venivo trattato con cura e rispetto. «È il nipote di don Ernesto» sentivo spesso esclamare al mio passaggio. Frequentavo gli altri bambini, più o meno miei coetanei. Notavo che avevano costumi diversi ma la cosa non mi ha mai stupito. I bimbi più piccoli indossavano dei calzoncini di lana che in basso avevano un buco da cui ciondolava il pisellino. Allorché gli scappava la pipì la facevano ovunque e in qualsiasi situazione senza scomporsi. E le mamme non avevano la croce di dovere ogni dì fare il bucato, una pratica che allora era piuttosto complicata. Nelle abitazioni infatti mancava l' acqua corrente ed era necessario raggiungere la fonte e prenderla con la tina, che veniva caricata sulla testa e trasportata per centinaia e centinaia di metri. Questo succedeva nel mio Sud. Non erano del tutto assenti soltanto le automobili, ma anche le motociclette. Il primo che da quelle parti comperò una motoretta fu un certo Romolo, giovane oste, simpatico ed evoluto per quei tempi. Un bel dì fu intravisto provenire da un paese limitrofo, Casacalenda, che si trovava su una specie di montagnola: scendeva a tutta velocità e da Guardialfiera i cittadini vedevano questo puntino nero che scorreva e scorreva, e si avvicinava. Rapidamente si diffuse la voce in tutto il paesino che Romolo stava per arrivare a bordo della sua motoretta e tutti, uomini, donne, bambini, anziani, infermi, scesero in piazza per accoglierlo con tanto di applausi, come fosse stato un eroe, un prodigio. Era un evento storico, una novità assoluta, e a quella gente sembrò il caso di celebrarla. Dopotutto lì ci si muoveva con l' asino; il cavallo lo avevano in pochi poiché era considerato roba da signori. C' era una situazione di disagio sociale assoluto. Pochi avevano un lavoro. Un mio amico aveva trovato un impiego alla posta e si considerava estremamente fortunato. Si chiamava Vincenzo, in seguito fece anche il giornalista. Tuttora mi manda i suoi articoli. In quel borgo le abitudini erano ancora primitive, le signore erano vestite di nero, durante il giorno tutti stavano tappati in casa per il troppo caldo. Quanto a me, inutile specificare che me ne andavo sempre a zonzo, non ero tipo da pennichella neanche allora. Mi dedicavo alle esplorazioni con i miei amici, insieme costituivamo delle piccole bande e vagavamo di qua e di là. In tal modo ho potuto osservare tutto quello che succedeva. Gli amichetti mi portavano nelle loro case, molto più umili rispetto al palazzo dei miei zii, tuttavia non esistevano differenze sociali, classi, almeno per noi piccolini: eravamo tutti uguali. In quegli alloggi scorgevo un andito buio, quasi tetro. Molti avevano la radio, non mancava qualche sedia di paglia. C' era solo una camera da letto, in cui si dormiva tutti insieme, in cinque, o sei, o dieci. Quello che mancava era il bagno e io mi domandavo dove quelle persone si recassero a fare i loro bisogni. Scoprii che andavano «a balle pa fischia mammuccia» (giù nella valletta fischia mammuccia), ossia correvano a valle, anche di cento o duecento metri, dove c' era il granturco e lì potevano espletare le loro esigenze fisiologiche. Ero animato solo da curiosità, non provavo alcuno stupore. Nello squallore generale di quelle stamberghe modeste ma decorose vigeva un certo rigore formale, c' era una dignità. Non importava quanto quegli individui fossero poveri, si comportavano sempre da ricchi generosi e ti offrivano qualcosa ogni volta che passavi di lì, fosse anche un biscotto. Ero affascinato da questo calore umano, da questa vicinanza gli uni agli altri, mi trovavo bene al Sud. Alla sera me ne stavo sul balcone della casa della zia e guardavo ciò che accadeva sotto, su corso Umberto. I cittadini di Guardialfiera facevano le vasche avanti e indietro, lo struscio insomma. Erano presenti pure i notabili del paese. E anch' essi vestivano la giacca del pigiama, quasi come fossero in smoking. Mi piaceva questa stranezza e dicevo alla zia Nella che desideravo unirmi a quel viavai di matti. Anche io volevo passeggiare in pigiama in mezzo a loro. Ella me lo vietava severamente. San Gaudenzio  - A una certa ora andavo a prendere lo zio Ernesto in osteria, dove giocava a carte, e insieme rincasavamo. Come di consueto, lo zio mi teneva per mano. In quei momenti mi sembrava di avere un padre. Vagabondando da solo ho scoperto tante cose di questo paese. Mi è rimasta dentro l' immagine della povertà, nella forma di una vecchia signora, la quale abitava in una catapecchia situata di fronte alla reggia degli zii. La sua casetta era una specie di caverna, un antro buio, in cui ella aveva collocato due o tre mobili e un fornello. All' ora di pranzo la vecchietta si preparava il suo misero piatto di pasta. Andavo a trovarla, era sempre carina con me, e seguivo quelle operazioni quasi incantato. La vedevo con i miei occhi misurare la pasta, metterla nel piatto, poi prendere la bottiglia dell' olio, che manovrava come se si trattasse di un tesoro. La donna vi intingeva un lungo ferro da calza dal quale poi faceva scivolare sulla pietanza tre gocce di olio, non una di più, per condirla. Si cibava di questo ogni santo giorno. La miseria è questa cosa qui: il ferro da calza che affoga nella bottiglia. Il formaggio non esisteva. Con il mio sguardo non ancora disincantato di pargoletto pensavo che quello fosse nient' altro che un metodo di misura. Pure a Guardialfiera avevano luogo le feste religiose tipiche del Mezzogiorno. Ogni estate veniva celebrato san Gaudenzio e la banda del paese si esibiva in piazza su una specie di rondò. Mi piaceva quel casino. Ascoltavo la musica, mangiavo noccioline zuccherate, correvo allegro con i miei amici. Lo zio Ernesto, a cui piacevano i bambini, per l' occasione dava 5 lire a ognuno perché si comprassero il gelato. Io andavo con loro a prendere il mio gelatino. Negli anni ero diventato amico di un ragazzino che faceva il sarto, e andavamo insieme al fiume, il Biferno, a fare il bagno. Il suo nome era Nicola. Trascorrono tantissimi lustri e un giorno viene un tassista al «Giornale», il quale chiede in portineria del direttore, ossia di me. Non avevo idea di cosa volesse. Dico al custode di farlo salire. Era lui. È entrato nella mia stanza e l' ho riconosciuto. Mi sono commosso, sono stato travolto dai ricordi. Nicola era imbarazzato, mi vedeva in televisione, ero diventato importante per lui. È stato un momento anche duro. Ci siamo abbracciati in silenzio. Non ho dimenticato neanche Nicolino, il figlio dello stalliere di mio zio, Tonino. Nicolino a un certo punto, quando aveva 14-15 anni, emigrò a Milano. Mio fratello Ariel lo incontrò per caso nel capoluogo lombardo dopo circa sei mesi dal suo insediamento e Nicolino parlava ormai come i milanesi. Pane abbrustolito -  Sento quei profumi. Quello del pane abbrustolito condito con pomodoro, origano e aglio. Si mangiava benissimo in Molise, nonostante la povertà. Ho nostalgia di quei sapori semplici. Ed ecco che rivedo lo zio Ernesto. Stiamo andando a Larino, siamo sul calesse. A metà strada incrociamo il mattatoio e i cavalli si agitano, fiutano la morte, sono terrorizzati, si inchiodano. Lo zio scende dal calesse, gli si affianca, li accarezza, sussurra qualche parola nelle loro orecchie, come se fosse certo che essi lo comprendono, e i cavalli in effetti mostrano di capirlo, si convincono. Lo zio afferra le redini dal freno e li guida in avanti con amore. Le bestie si acquietano. È stato zio Ernesto a trasmettermi l' amore per i cavalli. È stato lo zio a insegnarmi tutto ciò che c' è da imparare in campagna, ho trebbiato con le mie manine. Egli mi portava nelle stalle. Una volta mi condusse con sé a Liscione, località ora coperta dalla diga, posto meraviglioso. I suoi contadini avevano comperato una bella cavallina, dolcissima, e quando arrivammo me la mostrarono subito. «Voi salirci?» mi chiesero. Fu la prima volta che montai a cavallo. Avevo circa 10 anni. Ben cosciente della mia passione per gli equini, lo zio ogni pomeriggio, verso le 18, mi incaricava di abbeverare i suoi due cavalli. L' abbeveratoio era situato un po' fuori dal paese e io li portavo uno alla volta dalla capezza, ossia dalla corda. Poi, come mi aveva mostrato lo zio, fischiavo agli animali per indurli a bere. Al ritorno saltavo su un muretto e montavo sulla groppa del cavallo, rientrando a Guardialfiera al galoppo. Le estati in Molise sono state le più esilaranti della mia esistenza. Quando tornavo a Bergamo, parlavo più volentieri il guardiese che il bergamasco, poiché il Sud lo vivevo davvero, stavo sempre in strada con i miei amici, da scapestrati, mica chiuso in casa come in città alta. di Vittorio Feltri

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