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Carabinieri di Piacenza, Giuseppe Montella confessa: "Non ho fatto tutto da solo", placet dall'alto?

Brunella Bolloli
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 Ha parlato per tre ore. Stavolta sotto torchio c'era lui, l'appuntato Giuseppe Montella, quello che secondo l'accusa si vantava «stanno tutti sotto la mia cappella. C'ho in pugno i carabinieri» e si era autoproclamato il capo dell'associazione a delinquere che a Piacenza arrestava e malmenava pusher stranieri. L'uomo descritto nelle carte come un boss di Gomorra: spietato, arrivista, violento. L'opposto del servitore dello Stato. Il 37enne di Pomigliano d'Arco ieri ha pianto davanti al gip, Luca Milani, e al sostituto procuratore Antonio Colonna. Si è preoccupato di ciò che ora penseranno i suoi figli, ma anche i genitori, così orgogliosi del loro ragazzo che indossava la divisa militare e combatteva contro i cattivi. Quale Scarface, quali festini a luci rosse nell'ufficio del comandante: situazioni «destituite di ogni fondamento», ha spiegato il suo avvocato, Emanuele Solari, uscendo dal carcere Le Novate dove si stanno tenendo gli interrogatori di garanzia degli indagati dell'operazione Odysseus.

La deposizione dell'appuntato Montella era la più attesa perché le nefandezze avvenute nella caserma Levante, a leggere le 326 pagine di ordinanza, sembrano in gran parte opera sua. Gli altri carabinieri subivano la personalità schiacciante di Peppe il quale amava la bella vita, le auto veloci e le moto di grossa cilindrata e con i soldi del giro parallelo della droga era riuscito a comprarsi una villa con piscina dove immergersi con la compagna Maria Luisa (finita ai domiciliari) e farsi i selfie da postare su Facebook.

 

 

«LO METTO A POSTO IO»
Montella era convinto di poter tenere «qualunque tipo di comportamento, vivendo al di sopra della legge e di ogni regola di convivenza civile» anche grazie al rapporto privilegiato con il maggiore Stefano Bezzeccheri, l'oramai ex comandante della compagnia di Piacenza, sottoposto all'obbligo di dimora. Forte dell'"alleanza" con il maggiore, l'appuntato di origini campane scavalcava regolarmente il superiore, Marco Orlando, spedito ai domiciliari. «Io voglio parlare direttamente con voi, poi Orlando lo metto a posto io», dice Bezzecchieri in un'intercettazione, «così come l'anno scorso io ho disposto, dicevo: "Alla Levante non gli dovete rompere i coglioni coi servizi, ordine pubblico, scorte perché dovevate fare un certo tipo di lavoro». Montella, in effetti, si sente invincibile e dopo un sequestro di due buste di marijuana, fatto insieme ai colleghi arrestati Giacomo Falanga e Salvatore Cappellano, dichiara: «Una busta deve sparire... bel colpo!... Le cose solo noi tre ce le dobbiamo fare!». Anche i due "soci" ieri sono stati interrogati. Falanga, difeso da Daniele Mancini, in pratica ha negato tutto. La foto con i soldi in mano insieme agli spacciatori?
 

«Una vincita al gratta e vinci»; le violenze su un nigeriano? «Una spacconata. Lo straniero si sarebbe ferito cadendo». Insomma, nessun pestaggio, solo un grosso equivoco, così sarebbe stata la versione del militare fornita agli inquirenti e perfino per quanto riguarda gli arresti "sospetti", Falanga avrebbe replicato dicendo di «avere partecipato alle operazioni nel momento in cui venivano pianificate ma senza sapere cosa c'era a monte». Stefano Cappellano, invece, ha fatto scena muta. Assistito dall'avvocato Talita Zilli, l'appuntato che secondo le carte ricopriva «il ruolo del poliziotto cattivo», cioè quello che picchiava più forte, si è avvalso della facoltà di non rispondere.

L'INCHIESTA SI ALLARGA
 Dunque si torna a Montella, principale promotore dei reti contestati, il quale aveva coinvolto anche la compagna nel giro. Ieri ha deciso di collaborare, ha ammesso alcune responsabilità, il suo legale ha parlato di «sbagli per vanità o ingenuità», ma ha anche ribadito: «Non ho fatto tutto da solo» lasciando intendere di avere avuto una sorta di placet da chi era più alto in grado di lui come il maggiore Bezzeccheri che premeva sulla "squadra" affinché facesse più arresti e poco importa se erano illegali. Tale era la competizione con i colleghi delle compagnie di Bobbio e Rivergaro, da avere innescato un meccanismo perverso e malato che ora porterà la procura guidata da Grazia Pradella ad ampliare le indagini soprattutto per quanto riguarda la catena di comando dei carabinieri piacentini. Bisognerà capire quali e quanti superiori nella scala gerarchica sapevano del modus operandi in voga nella caserma Levante, calcolando che al comando provinciale piacentino si sono avvicendati ben 3 colonnelli in tre anni: Scattaretico, Piras e Savo. Quest' ultimo è appena stato trasferito ad altro incarico come deciso dal Comando generale dell'Arma che sta facendo luce con una indagine interna. Scattaretico aveva finito il suo mandato triennale, mentre Piras, a settembre, dopo neanche un anno a Piacenza, è stato chiamato a Roma nella segreteria del ministro dei Trasporti De Micheli. Forse aveva capito che in città tirava una brutta aria. E chissà se lo sapeva anche la ministra De Micheli. 

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