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Coronavirus a Bergamo, l'esperta del Mario Negri: "Città meno colpita grazie agli anticorpi. E forse il Covid è mutato"

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È stata travolta, si è rialzata, ha lottato e ripreso a vivere. L'hanno ribattezzata la Wuhan d'Europa. Vengono ancora i brividi. Ora però Bergamo soffre il ritorno del Covid meno di molte altre città italiane. È tra quelle col minor incremento percentuale di casi. Ci si ammala meno. Il numero di pazienti in terapia intensiva non è minimamente paragonabile a quello di marzo e aprile.  Si è sviluppata l'immunità di gregge? «Ci stiamo pensando, anche se non è semplice dimostrarlo», ci dice la dottoressa Ariela Benigni, segretario scientifico dell'Istituto "Mario Negri" di Milano e coordinatrice delle Ricerche della sede di Bergamo e Ranica. Per diciott'anni è stata a capo del dipartimento di Medicina Molecolare. «I dati della nostra ricerca su Bergamo e provincia sono molto interessanti». 

La popolazione ha sviluppato in massa gli anticorpi?
«Il 38%. Ma attenzione: è un dato parziale». 

Cioè?
«È la situazione di maggio: è verosimile che oggi la percentuale sia ancora più alta». 

Quante persone avete testato?
«Cinquecento, d'età per lo più compresa tra i 35 e i 55 anni. In piccoli gruppi della Val Seriana, che però sono troppo ridotti per fare statistica, gli anticorpi li hanno quasi 6 persone su 10. E ora a questi dati vanno a sommarsi quelli provenienti dagli studi sui linfociti "T" della memoria attorno a cui c'è molta enfasi». 

Cosa sono?
«Cellule presenti nell'organismo in grado di reagire a questo Coronavirus. Riconoscono nel Covid-19 piccole porzioni di virus con cui sono venute a contatto in passato». 

Ci spieghi.
«Quando veniamo attaccati da un virus, pensiamo a quello dell'influenza, l'organismo sviluppa una risposta nei suoi confronti, ma quello specifico virus potrebbe avere delle sequenze comuni ad altri virus, come l'attuale Corona. In sostanza quando i linfociti della memoria si imbattono in virus in parte già conosciuti li attaccano. Se sommiamo questa risposta immunitaria alla presenza di anticorpi contro il Covid, quel 38% iniziale di Bergamo arriva circa al 60». 

Si può dire che queste persone sono immunizzate? 
«No: meglio dire che sono persone che rispondono al virus». 

Come si è arrivati alla scoperta dei linfociti "T"? 
«Il primo studio è svedese, del "Karolinska Institutet" di Solna. Poi anche altri istituti europei hanno dimostrato l'esistenza e il funzionamento di queste cellule. Ci tengo a sottolineare che i linfociti della memoria rappresentano un sistema d'allerta importante anche nei confronti dei prossimi Coronavirus». 

Quello di oggi è lo stesso di mesi fa?
«No. Sta circolando un ceppo spagnolo. Si diffonde molto ma è meno patogeno. Non è corretto affermare che è meno severo, ma dà una malattia più leggera. Non in tutti però: sopra i 70 anni è comunque complicata». 

Come si fa a certificare la provenienza del ceppo di un virus? 
«Prima si mette a confronto l'Rna iniziale con quello attuale. Com' era composto e com' è cambiato. Accertato che il virus è mutato si consulta la letteratura scientifica e si comparano le sequenze. Quella spagnola combacia con quella che si sta diffondendo maggiormente in Italia. È dal confronto che si comprende la provenienza, com' è successo a febbraio col ceppo di Wuhan». 

Ora chi è più esposto al contagio? 
«Stando alla casistica i ragazzi tra i 20 e i 29 anni» 

Dopo 7 mesi non lo abbiamo ancora capito: chi ha già contratto il virus può riprenderselo? 
«Bisogna essere chiari: non lo sa nessuno con certezza. Però in letteratura i casi di reinfezione sono pochi. Da ciò si evince che una copertura dovrebbe esserci, bisogna capire quanto dura. I nostri studi dimostrano che molti di quelli che hanno contratto l'infezione durante la prima ondata hanno ancora gli anticorpi. Molti, non tutti, lo sottolineo. Può essere che chi ha preso la malattia in forma grave abbia sviluppato anticorpi più duraturi. La gente però deve sapere che i casi di recidiva sono davvero rari: questo sì, si può dire». 

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