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Luca Palamara, la confessione a Sallusti su Esposito: "Perché abbiamo assolto il giudice che condannò Berlusconi"

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Pubblichiamo uno stralcio del libro "Il Sistema", scritto da Alessandro Sallusti e Luca Palamara, nel quale l'ex presidente dell'Anm, intervistato dal direttore di Libero, svela i retroscena sulla mancata sanzione del giudice Antonio Esposito, presidente della Corte che condannò Berlusconi.

«Quel giorno, era il 15 dicembre 2014, che con i colleghi del Csm della commissione disciplinare dovevamo decidere se sanzionare o no il giudice di cassazione Antonio Esposito, ero conscio che non stavamo giudicando il comportamento di un collega ma la storia recente dell'Italia».

 

 

 

Riassumiamo. L'1 agosto 2013 la sessione feriale della Corte di Cassazione presieduta da Antonio Esposito, dopo sette ore di camera di consiglio condanna in via definitiva Silvio Berlusconi a quattro anni, tre coperti da indulto, per frode fiscale nel processo sui diritti Mediaset. Da Milano il procuratore Bruti Liberati commenta soddisfatto: «La pena è immediatamente eseguibile». Matteo Renzi gli fa eco: «Game over». Cinque giorni dopo, il 6 agosto, sul quotidiano Il Mattino di Napoli esce un'intervista ad Esposto, firmata dal giornalista Antonio Manzo, che aveva registrato il colloquio, in cui il giudice anticipa di fatto le motivazioni della sentenza: «Berlusconi condannato perché sapeva», è il titolo che rispecchia il contenuto e il pensiero espresso dal magistrato, come stabilirà, nel 2017, il tribunale civile di Napoli cui Esposito si era rivolto - chiedendo due milioni di danni - sostenendo di non aver mai detto quelle cose a Manzo. Per gli avvocati di Berlusconi l'anticipazione delle motivazioni è una grave violazione della legge e dei diritti dell'imputato. Il caso ha un clamore tale che per forza deve finire davanti al Csm, il supremo organo.

«La pratica la ereditiamo dalla precedente consigliatura che aveva preferito rinviare e lavarsene le mani. In effetti le cose stavano così come dicevano gli avvocati di Berlusconi, c'è poco da dire. Ma si poteva noi offrire un assist a Berlusconi, dopo che per vent' anni si era cercato di metterlo all'angolo con ogni mezzo, proprio quando l'obiettivo era stato raggiunto?».

Me lo dica lei.

«Era una responsabilità enorme che andava oltre il merito della vicenda. Condannare Esposito sarebbe stata una opzione corretta - lo aveva chiesto anche la Procura generale -ma inevitabilmente avrebbe messo in dubbio la credibilità della sentenza sui diritti Mediaset. Viceversa assolvere Esposito avrebbe rafforzato la credibilità di quella decisione. Senza voler violare il segreto della Camera di consiglio, posso testimoniare che questo ragionamento logico aleggiava nell'aria, per usare un eufemismo».

E cosa altro "aleggiava nell'aria"?

«Ameno altre due cose oltre questa, una della quali mi riguardava personalmente».

Partiamo da questa.

«Anni prima avevo conosciuto e frequentato, dal 2011 al 2013 il giudice di Cassazione Amedeo Franco, uno dei membri della corte che condannò il Cavaliere».

Quello che dopo la sentenza andò da Berlusconi a scusarsi sostenendo che lui era contrario alla condanna, che ci furono pressioni e che quella corte si comportò come un «plotone di esecuzione» e che per arrivare a quel verdetto «c'erano state pressioni da molto in alto», il tutto registrato in un audio che compare sulla scena nel 2020.

«Proprio lui, ci incontrammo più volte a cene, di solito il mercoledì sera, a casa di Paolo Glinni, magistrato in pensione che mi aveva presentato Filippo Catalano, collega amico di mio padre conosciuto durante la mia presidenza all'Anm. Non dopo la sentenza come fece con Berlusconi, ma nelle settimane che la precedettero, Amedeo Franco mi parlò delle sue preoccupazioni sia per il modo anomalo con cui si era formato il collegio giudicante che per le pressioni che si stavano concentrando affinchè l'esito fosse di un certo tipo, in altre parole di condanna».

E lei che reazione ebbe?

«Queste confidenze di Franco oggi, per mia volontà, sono nelle carte processuali che mi riguardano. All'epoca me le tenni per me».

Ma come, un magistrato quale lei è viene a conoscenza di una possibile turbativa su una sentenza che riguarda il capo dell'opposizione di un Paese democratico e invece che segnalare all'autorità giudiziaria la tiene per sé?

«Capisco il senso della domanda. Ho commesso il reato di omessa denuncia? Sì, probabilmente l'ho commesso, ma il primo a non denunciare nelle sedi opportune - se vogliamo essere onesti - fu proprio Franco che pure aveva in mano, unico perché a me non fece nomi, tutti gli elementi. Parlai di quei colloqui durante la seduta del Csm per il disciplinare su Esposito? No, non ne feci cenno. Il contesto nel quale mi muovevo e operavo era lo stesso "sistema" che in quel momento stava avvolgendo Franco. Alle mie orecchie quelle parole non mi sembravano di un marziano, non mi sorpresero. Sapevo benissimo che le cose potevano anche andare così».

E così andarono. Ha più rivisto Franco?

«L'anno successivo, inizio 2014, durante la mia campagna elettorale per accedere al Csm. Mi parlò chiaramente della sua ambizione di essere nominato presidente di sezione della Cassazione. Con il senno di poi e senza possibilità di verifica - nel frattempo Amedeo Franco è morto - mi chiedo se il suo arrendersi alle pressioni di cui parlava riguardo alla sentenza era in qualche modo legato a promozioni a cui lui aspirava e che magari qualcuno gli aveva garantito per ammorbidirlo».

Pensa che qualcuno poteva averlo in mano?

«Quello che è certo è che dopo la sentenza Berlusconi, Franco inizia a chiamare insistentemente il Quirinale. Lo ha raccontato di recente,in una intervista al Corriere della Sera, Ernesto Lupo, allora consigliere per gli affari giuridici del Presidente Napolitano. Più telefonate per lamentarsi della «porcheria della sentenza Berlusconi», riferisce Lupo. E soprattutto del fatto che «il Csm non lo vuole promuovere a presidente di Cassazione».

Sarà poi promosso?

«Ovvio, nella seduta del Csm il 15 gennaio 2015. Faceva parte di un pacchetto blindato. E qui accadde la seconda cosa anomala di questa vicenda».

Si spieghi.

«I “pacchetti” di nomine, come abbiamo visto in precedenza, vengono confezionati dalle correnti e portati al Csm dove normalmente vengono approvati all’unanimità. In quel caso non fu così. Si astiene il consigliere Ercole Aprile,che di Franco era stato collega nel collegio che aveva condannato Berlusconi. Sapendo di questa sua intenzione lo interrogo suoi motivi. Mi dice: “Perché in quella camera di consiglio ho visto cose indicibili, cose che voi umani – citando la famosa frase di Blade Runner – non potete nemmeno immaginare”».

Si spieghi meglio.

«Se uno si astiene dovrebbe spiegarne il motivo, che in questo caso non può che riguardare cosa successe nella camera di consiglio che condannò Berlusconi. Non si può lanciare il sasso e ritirare la mano limitandosi a dire nei corridoi: “Cose che voi umani …”. Gli umani avrebbero diritto di sapere, e il Csm pure».

Si è parlato di un tentativo di Franco di registrare la seduta e lo stesso Franco dirà che c’è stata una intrusione dall’esterno. Quale è la verità?

«Ciò che è successo lo sanno solo loro. Quello che io voglio dire, è che la verità è stata chiusa in cassaforte, non la si deve sapere».

 

 

 

Le faccio sul dottor Aprile la stessa domanda che ho appena fatto su di lei. Un magistrato che è stato testimone di un possibile reato, quale è un’anomalia in camera di consiglio, non avrebbe l’obbligo di denunciare in modo dettagliato come qualsiasi cittadino a conoscenza o addirittura testimone di fatti sospetti?

«Certo che lo avrebbe. Ma le rispondo allo stesso modo di prima. I magistrati fanno parte di un “sistema” e a quello rispondono. Secondo lei c’è un solo magistrato in tutta Italia che ha il coraggio di convocare Ercole Aprile per chiedergli di dettagliare la sua ipotesi di reato?».

In un paese normale dovrebbe esserci.

«Ma non c’è, e infatti non c’è stato, a differenza di quanto accade in tutti gli altri ambiti. Lei si immagini se un consigliere di amministrazione di una grande società dichiara, uscito dalla seduta in cui si approva il bilancio, di avere visto cose fuori dal mondo. In poche ore quella società verrebbe circondata e setacciata dalla Guardia di Finanza e da una schiera di Pm. Nel nostro mondo non è così, cane non mangia cane».

Domanda banale. Perché?

«Perché di mezzo c’è Silvio Berlusconi, perché ne va della tua carriera, dell’onore al corpo al quale appartieni. Se si provasse una anomalia in quella sentenza cadrebbe un castello costruito in vent’anni di lavoro sul fronte politico e su quello giudiziario. Non è possibile che accada».

Veniamo alla terza cosa che “aleggiava nell’aria” in quella seduta del Csm che ovviamente si concluse con l’assoluzione del giudice Esposito.

«Da poco il Csm aveva aperto un’inchiesta disciplinare nei confronti di Ferdinando Esposito, figlio di Antonio e magistrato alla procura di Milano.Diciamo un ragazzo esuberante, che io conoscevo bene per via di alcuni comuni amici».

Condannato pure, il 7 luglio del 2016, dal tribunale di Brescia per tentata induzione indebita.

«Ma era solo l’ultima di una serie di, chiamiamole così, disavventure. La prima fu quando in servizio a Cosenza fece un grave incidente stradale la cui dinamica non fu mai chiarita. E poi a Milano le frequentazioni pubbliche con una indagata, Nicole Minetti, consigliera regionale lombarda di Forza Italia coinvolta nel caso Ruby, e ancora i pasticci economici con un amico che gli aveva affittato un attico vista Duomo che lui non voleva più pagare al quale – risulta dalle carte di quel processo – disse: «Attento, alle tue aziende può capitare di tutto con una inchiesta sbagliata». Ci sono pure richieste di prestiti fuori luogo e, ciliegina sulla torta, la frequentazione per un certo periodo, proprio quello antecedente la sentenza di suo padre, di Arcore, il quartier generale di Berlusconi il quale con la Procura di Milano qualche conto aperto l’aveva».

Un bel curriculum per un magistrato, non c’è che dire.

«Già, ma nonostante tutto quando andavo a Milano a volte lo incontravo. Di nascosto perché se lo avessero saputo in Procura sicuramente non avrebbero gradito. Non vedevano l’ora di liberarsene, e lo fecero sapere chiaramente al Csm».

I motivi a occhio non mancavano.

«Non mancavano, ma quella pratica finì su un binario morto, e Milano smise di fare fretta. Ferdinando Esposito fu trasferito poi a Torino ma il procedimento disciplinare, nonostante la rilevanza delle accuse, rinvio dopo rinvio, impedimento dopo impedimento, è ancora lì, sospeso nel vuoto. L’ultima udienza saltata è di inizio dicembre 2020».

Ma sono passati sei anni, una enormità.

«I tempi della giustizia variano, quelli del Csm deputato a decidere sui colleghi sono particolarmente elastici. Ma qui stiamo parlando del figlio del giudice che ha condannato Silvio Berlusconi in un contesto che è quello che abbiamo appena visto. Inutile che mi chieda se le due cose – la sentenza di assoluzione del padre e la lentezza del disciplinare del figlio – siano in relazione. È una domanda irricevibile perché è maliziosa e perché non ci sono risposte basate su documenti».

Ma lei un’idea se la sarà pur fatta.

«Faccio mia la frase del giudice Aprile: “Ho visto cose che voi umani non potete neppure immaginare”, e a volte quelle cose le ho anche fatte,ma sempre e solo per difendere il “sistema” di cui facevo parte. Io sono stato sempre consapevole che all’interno della magistratura ci fosse un determinato clima che riguardava il livello politico. Ma non prendiamoci in giro, tutti dentro la magistratura sapevano che il clima era quello, e tutti si adeguano. Può essere che il caso della sentenza su Berlusconi sia stata condizionata da questa logica oppure no, fu frutto di una libera volontà. Ma le volontà sono anche libere di seguire il percorso che si ritiene più utile o conveniente di altri».

Secondo lei anche la sentenza del giudice civile del tribunale di Milano Raimondo Mesiano che condannava Berlusconi a risarcire 750milioni di euro a Carlo De Benedetti perla causa sulla spartizione della Mondadori rientra in questa logica?

«Non sono in grado, e non mi va, di entrare nel merito dei singoli processi. Io ho svolto un ruolo che aveva a che fare con la politica giudiziaria, non con le sentenze. Ma detto questo le confesso che tra le tante che ho fatto, la difesa dell’autonomia di quel giudice attaccato da tutto il centrodestra l’indomani della sentenza, eravamo nel 2009 ed ero presidente dell’Anm, è stata dentro di me la meno convinta di tutte.Quella cifra, oltre a fare una certa impressione, appariva oggettivamente esagerata rispetto a tanti parametri, tanto è vero che in appello, nel 2013, venne sensibilmente ridotta, se non erro a 470 milioni che restano comunque una somma ragguardevole, alcuni sostengono ancora sproporzionata al valore reale dell’azienda Mondadori. Ma oltre che delle cifre, tra di noi si parlava di una voce che girava al punto da essere riportata da alcuni giornali. Che era la seguente. Chi ha scritto in verità quella sentenza? Mesiano di suo pugno o ci fu una manina esterna?».

Lei che idea si è fatto? 

«Le mie idee non contano, in quel momento neppure per meche pure ovviamente le avevo. Conta solo stare uniti contro un nemico comune, in guerra funziona così e chi sostiene il contrario è un ipocrita. Sfido a trovare una sola persona che in quei giorni si sia espressa nel merito di una sentenza di centinaia di pagine. Nemmeno io l’ho fatto. Si stava dissanguando Berlusconi, per di più a vantaggio dell’icona della sinistra Carlo De Benedetti e questa era l’unica cosa che in quel momento contava. Come ho già detto, ci è venuta in aiuto la questione dei “calzini azzurri” indossati da Mesiano mandata in onda da Canale 5 il giorno successivo la sentenza a mo’ di scherno. È stata un’arma di distrazione di massa, non potevamo desiderare di meglio. Si parlava dei calzini e non dell’abnormità della sentenza per la quale un po’ di imbarazzo, devo ammettere, l’avevamo. Sui calzini di Mesiano si convoca una giunta dell’Anm e una seduta del Csm, si parla addirittura di sciopero dei magistrati. Parte la grancassa mediatica. Si muovono un po’ tutti dalla Federazione Nazionale della Stampa e L’Ordine dei Giornalisti ai partiti e giornali di sinistra, insomma il “sistema” si attiva. Visto oggi fa sorridere, ma allora erano cose estremamente serie. Non si poteva lasciare solo un collega che aveva dato una botta micidiale al Presidente del Consiglio».

 

 

 

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