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Funivia Stresa Mottarone, "la richiesta ignorata dopo l'arresto". Guerra in procura: nelle carte la pesantissima accusa del gip alla pm

Francesco Specchia
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L'una contro l'altra armata. L'una ha 52 anni è pratese, rossa fuoco, analitica, e distilla le parole e si muove sul filo dell'invisibile. L'altra viene da Busto Arstizio, ha 55 anni, è bionda, verace, emotiva al punto da piangere in diretta tv e da invocare «pene elevatissime» per i malvagi come preludio al castigo di Dio. Sono Donatella Banci Buonamici e Olimpia Bossi, rispettivamente la Gip - la giudice per le indagini preliminari- e la Procuratrice della Repubblica che, a Verbania, in queste ore, si scontrano sul destino processuale dei tre principali indagati della tragedia del Mottarone. Accade, infatti, che la gip di Verbania abbia sì disposto gli arresti domiciliari per il caposervizio della funivia, Gabriele Tadini, ma nel contempo abbia scarcerato Luigi Nerini, gestore dell'impianto, e Enrico Perocchio, direttore di esercizio. Ovvero gli stessi attori in tragedia per i quali la collega pm aveva chiesto la carcerazione preventiva per reiterazione del reato, pericolo di fuga e grave pericolosità sociale. 

 

NESSUN PERICOLO
Spiega la dottoressa Banci nell'ordinanza di remissione in libertà: «Palese è al momento della richiesta di convalida del fermo e di applicazione della misura cautelare la totale mancanza di indizi a carico di Nerini e Perocchio che non siano mere, anche suggestive supposizioni»; e parla di «scarno quadro indiziario» ancora «più indebolito» con gli ultimi interrogatori; e smentisce ferocemente l'impianto accusatorio della collega. Sotto il sole battente, tra i cronisti assiepati qui, davanti all'entrata del Tribunale, c'è chi propende per la versione dei fatti garantista della Banci; e chi per quella più giustizialista della Bossi. La quale Bossi, tra l'altro, richiesta di commento, butta lì di non vivere «come una sconfitta» la decisione di scarcerazione del Gip «perché l'aspetto più importante è che il giudice abbia condiviso la qualificazione giuridica dei fatti nel senso che per quanto riguarda l'unica persona per la quale la misura è stata applicata lo è stata proprio in relazione ai reati come noi li avevamo qualificati, non solo gli omicidi colposi ma soprattutto il reato di rimozione dolosa delle misure di sicurezza»; e il riferimento è a Tadini unico reo confesso. 

Il duello fra le magistrate, l'altro giorno, sfrigolava tra le aule d'interrogatorio; i toni erano accesi, potente era l'eco dei diritti e delle vite violate; e, in una narrazione quasi surreale, lo scazzo s' era spostato dagli uffici ai social. Le due sono professioniste unanimemente conosciute. Banci vanta esperienze milanesi, e da presidente della sezione penale, è gip, gup e giudice monocratico e collegiale. Bossi mostra una tigna leggendaria; è pignola con i suoi collaboratori quanto lo è con i due figli. Un atout che l'ha portata, a meno di 50 anni, ad essere il magistrato più giovane alla guida di una Procura in Italia. 

PAGINE AL CURARO
La stessa tigna che l'ha spinta, ieri, all'annuncio del «ricorso al tribunale del Riesame contro il provvedimento del Gip di Verbania»; anche perché - «quella decisione è stata presa a mezzanotte. Il giudice ha detto che a carico dei due (Nerini e Perocchio, ndr) chiamati in causa dal Tadini in questo momento non vi sono sufficienti indizi per la misura cautelare che non significa che non ce ne saranno in futuro» continua Bossi, senza citare Banci. E Banci risponde con 24 paginette al curaro, in cui smonta l'impostazione della Procura: «Difettava il pericolo di fuga. 

Gli stessi pm hanno operato il fermo a non indicare ALCUN (in maiuscolo, ndr) elemento dal quale sia possibile evincere il pericolo di allontanamento dei tre indagati». E continua: «Suggestivo ma assolutamente non conferente è il riferimento al clamore mediatico dato alla vicenda: è di palese evidenza la totale irrilevanza di tale condizione al fine del pericolo di fuga». Mazzate. Con stoccate finali su trattamento riservato al Perocchio che «ha chiesto inutilmente di essere sentito dimostrando in questo modo altro che la volontà di fuggire» ed è finito in galera in un lampo; e al Nerini, che non poteva fuggire perché «avrebbe avuto interesse a restare sul territorio e difendersi da tale accusa anche per evitare le gravissime ripercussioni economiche su tutta la sua famiglia». 

 

Bossi ribatte che il proprietario non poteva non sapere delle prassi nefaste dei suoi dipendenti sui "forchettoni"; e che, in ditta tutti sapevano: «Noi continueremo a indagare perché anche da un punto di vista logico, di dinamiche imprenditoriali mi pare poco credibile che tutti fossero a conoscenza di queste prassi tranne il proprietario». Dal punto di vista logico. Per Bossi la colpa è diffusa, per Banci i padroni - Leitner compresa- non avevano interesse a rischiare l'ecatombe. I tre restano indagati. Nell'inchiesta spunta l'operaio addetto alla manovra della funivia. E le due si rigettano nella mischia.

 

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