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Cyberguerra, "Italia completamente sotto controllo della Russia": il disastro dei servizi segreti, siamo già proprietà di Putin?

Renato Farina
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Come ci sarebbe piaciuto porre alcune domande al vertice della piramide che custodisce la nostra tranquillità (e soprattutto quella delle nostre istituzioni). Sono gli interrogativi del resto che costituiscono il nerbo dell'articolo dedicato ieri da Libero al "caso Kaspersky". 1) Davvero i russi ci spiano tranquillamente grazie a un software inserito come un cavallo di Troia in tutti, ma proprio tutti i 2200 nodi della comunicazione istituzionale della Repubblica italiana? 2) La Russia ci ha inserito ufficialmente tra i Paesi ostili, considera legittimi obiettivi di guerra i nostri convogli che partendo dall'Italia rafforzano la resistenza ucraina, e noi anche in questo momento lasciamo che quei bei cavalli di Troia, che dev' essere un sobborgo di Mosca, pascolino tranquillamente nei verdi pascoli dove le nostre autorità decidono gli affari che ci riguardano e magari i piani della Nato? 3) Si è individuato o si sta cercando perlomeno qualche buco (bug) da cui gli equini web si sono abbeverati di dati sensibili? 4) Com'è stato possibile che nessuno tra quelli che gli italiani stipendiano per garantire la tranquillità delle telefonate, l'impermeabilità delle cartelle cliniche, il segreto delle mail del presidente del Consiglio e del presidente della Repubblica, passando per tutti i ministri fino all'ultimo maresciallo di una caserma, siano stati alla mercé dei predatori di dati, oltretutto arruolati ufficialmente come specialisti nel bloccare i virus (ironia della storia) dei male intenzionati? 5) Ma come diavolo si può spiegare una simile topica? I nostri alleati americani avevano vietato per legge l'installazione di questa micidiale macchina da guerra informatica nei computer non solo delle istituzioni e dei suoi dipendenti ma anche in qualunque azienda in contatto con qualsivoglia agenzia federale (settembre 2019).

 

 

BASTA APPROFONDIRE
Si trova la norma voluta da una senatrice democratica cercando su un motore di ricerca, andando un po' oltre la prima pagina con le dieci voci inneggianti alle favolose performance dell'applicazione inventata da un ex allievo del Kgb. Invece la Agenzia di Cybersicurezza italiana, dotata di un direttore ingegnere proveniente dagli alti ranghi strategici dell'Intelligence (il Dipartimento informazioni per la Sicurezza, Dis), non lo sapeva, oppure riteneva fosse la solita esagerazione degli americani? Niente da fare. Chi aveva la possibilità di porle - è la libertà del giornalismo- ha preferito l'inginocchiatoio. Ci permettiamo di estrarre la morale che si ricava dall'intervista come minimo encomiastica che il Corriere della Sera ha riservato in prima pagina al sottosegretario alla presidenza del Consiglio Franco Gabrielli. E la morale è che in tempi di guerra il fronte interno dev'essere compattamente allineato. E il capo della sicurezza di noi tutti, in un momento di turbamenti e contagio della paura, va ritratto come una statua di granito che spaventa il nemico e rasserena i cittadini. Ci sta. Anche questa è strategia non banale nella tempesta: sopire, trasformare l'errore in una conquista. Dopo che circa due settimane fa Il Riformista aveva rilevato questa falla nelle mura della patria, Gabrielli ne parla come se fosse una perdita da un rubinetto: ne ricava non un mea culpa ma che «...dobbiamo liberarci da una dipendenza dalla tecnologia russa». Un colpo di genio. Chi l'avrebbe mai detto? Domanda: che tipo di dipendenza? «Per esempio quella di sistemi antivirus prodotti dai russi e utilizzati dalle nostre pubbliche amministrazioni che stiamo verificando e programmando di dismettere, per evitare che da strumento di protezione possano diventare strumento di attacco». Perché si sono acquistati apparati a basso prezzo russi e cinesi, ad altissima tecnologia ma a rischio palese, invece che investire in un una star-un nostrana, o attingere da sorgenti meno inquinate? Perché non sono stati dismessi? Il commento che mi viene è irriguardoso. Gli direi: lei, eccellenza, conosce il proverbio declinato in ogni dialetto italico che segnala la saggezza del contadino: "Ha chiuso la stalla dopo che il bue è scappato"? Il fatto è che è pure peggio. Si sta ancora studiando se e come fare a meno di questo software che per intanto bivacca a casa nostra, nel salotto dei Palazzi del nostro povero potere. Eppure, se ci fosse serietà da qualche parte, qualcuno dovrebbe chieder conto a Gabrielli di quanto rivelato. E della sua visione da capo della polizia e della protezione civile (così dice il suo curriculum) più che dell'intelligence. L'intelligence non arriva dopo, denunciando abusi, e tappando falle: quello è il lavoro della polizia postale. I servizi- sono concetti elementari fanno in modo che le cose non accadano. Così Gabrielli elogia l'Aise, poiché «l'Agenzia perla sicurezza esterna s'è occupata e continua a occuparsi della messa in sicurezza delle persone sul teatro di guerra, a cominciare dall'esfiltrazione degli italiani».

 

 

CONTROLLO PREVENTIVO
Il lavoro dei servizi sarebbe dovuto essere preventivo. Prevedere l'invasione, portarli a casa prima dei casini, altrimenti fa un lavoro da Croce Rossa, nobilissimo, ma è un'altra cosa. Detto questo, onore a Gabrielli, in lui si concentrano, persino nella postura e nel carattere, i massimi poteri in termini di sicurezza mai attribuiti in Italia a un uomo solo dal dopoguerra in poi. Il 25 febbraio del 2021 è nominato sottosegretario di Draghi in quanto "Autorità delegata" ai servizi. L'8 marzo, con un Dpcm, Draghi gli conferisce la responsabilità della Sicurezza della Repubblica; non basta, con Dpcm il 13 settembre Gabrielli ottiene un'altra delega "in materia di cybersicurezza". Con ogni evidenza, sa far valere le sue prerogative eccezionali, specie in un momento così delicato di guerra e di sanzioni, per cui anche un giornalista di prima linea come Giovanni Bianconi si sente in dovere di non mettere in questione la tenuta, la qualità e la affidabilità del sistema che ha in Gabrielli il suo vertice. Insomma. L'unica domanda seria che bisognava fare (perché ci siamo fatti invadere elettronicamente dai russi?) resta lì appesa per aria. Forse la domanda al giornalista del Corriere della Sera è rimasta sulla punta della lingua, o magari gli è venuta in mente una volta chiusa la telefonata: "la pensée des escalier" di cui parlava Proust. Bè, l'abbiamo fatta noi. 

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