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Omicron 2, i numeri non tranquillizzano: ricoveri e intensive, cosa sta succedendo in Italia

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Massimo Sanvito
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Una premessa doverosa prima di tutto: vietato abbassare la guardia, certo, ma non siamo affatto nella stessa situazione dell'anno scorso. Grazie ai vaccini e alla perdita di virulenza da parte del covid siamo molto più fiduciosi verso l'immediato futuro. Anche se i numeri del Ministero della Salute fotografano un aumento dei ricoveri ordinari (+315 rispetto alle ultime ventiquattr' ore e 9.496 totali), dei letti occupati in terapia intensiva (+23 e 487 totali) e dei morti (95 ieri, 82 l'altro ieri. In totale, ieri, si sono registrati 30.710 nuovi casi contro i 59.555 di sabato, col tasso di positività che è sceso dal 15,5 per cento al 14,5: non dimentichiamoci, però, che la domenica i tamponi effettuati sono sempre meno.

 

Entrando nel dettaglio, la regione con il maggior numero dicasi nella giornata di domenica è stata il Lazio con 4.418 contagi, seguita da Campania (+3.723), Emilia Romagna (+3.187), Puglia (+2.791) e Lombardia (+2.718). Buone notizie dalle cifre dei guariti e dei dimessi (40.300 nelle ultime ventiquattr' ore), nonché dal trend: da quattro giorni consecutivi, infatti, i contagi sono leggermente inferiori rispetto allo stesso giorno della settimana precedente. È il segnale che il picco, per questo colpo di coda di marzo, è stato raggiunto? Probabilmente sì. E sarebbe una gran bella notizia.
Niente paura, dicevamo.

O almeno non troppa. Guai, però, a cantar vittoria troppo presto e, peggio ancora, a lasciarsi andare in comportamenti poco attenti. Lo ha ribadito anche Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di sanità, a margine di un seminario all'Università di Catanzaro: «Di fatto la pandemia non è mai finita e quindi, pur essendo l'Italia in una situazione decisamente favorevole per quel che riguarda il livello di copertura vaccinale, non deve mai venire meno l'attenzione alla responsabilità dei comportamenti individuali».

 


Con Omicron 2, dunque, meglio non tirare troppo la corda, vista la sua grande contagiosità. Chi è senza terza dose rischia non poco di infettarsi. «Non pensiamo che la variante omicron sia un banale raffreddore. Lo può essere per i soggetti coperti da un ciclo di vaccinazione. Certamente non lo è per chi non è adeguatamente immunizzato», ha sottolineato Locatelli. E per quanto riguarda le cure farmacologiche? «Esistono oggi due farmaci: Paxovlid e Molnupiravir che hanno significativa efficacia. Soprattutto il primo, negli studi clinici controllati, si è dimostrato efficace nel prevenire la progressione a forme gravi in quasi il 90 per cento dei casi. Va forse reso più agile il meccanismo di accesso per incrementare la percentuale dei soggetti che vengono ad essere trattati», ha spiegato il presidente del Consiglio superiore di sanità.

A proposito degli effetti della malattia, uno studio pubblicato su European Journal of Neurology dal Centro di Ricerca "Aldo Ravelli" dell'Università degli Studi di Milano e dell'Ospedale San Paolo, in collaborazione con l'Istituto Auxologico Italiano Irccs, ha evidenziato come a distanza di un anno dal contagio può ancora persistere la cosiddetta «nebbia cognitiva», quella sorta di stanchezza mentale che rende difficili anche le azioni quotidiane: lavorare, guidare la macchina o fare la spesa. Su 76 persone ricoverate presso l'Asst Santi Paolo e Carlo, sottoposte a diverse terapie con ossigeno in base alla gravità della malattia, il 63% ha manifestato un disturbo cognitivo a cinque mesi dalle dimissioni.

Intanto, da venerdì primo aprile, addio alla quarantena per chi viene in contatto, anche strettamente, con un caso positivo. Nulla cambierà, invece, per i contagiati, a differenza di quanto filtrato in un primo momento. Servirà un tampone negativo dopo sette giorni per i vaccinati (anche con terza dose) o dopo dieci giorni se non vaccinati o se vaccinati da più di quattro mesi. «Abbreviare l'isolamento significherebbe avere in circolazione più persone positive capaci di contagiare gli altri, perché a cinque giorni dal contagio il virus ha una maggiore probabilità di essere ancora presente rispetto a sette giorni», ha spiegato il Cts. Tradotto: dopo una settimana diminuiscono le probabilità che un individuo possa trasmettere l'infezione.

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