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Se la Storia viene cancellata dal politicamente corretto

La statua di Montanelli imbrattata

Francesco Specchia
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Che cos’hanno in comune George Floyd ucciso dalla polizia e issato sull’altare del Mee Too con Pierluigi Bersani che – offeso nel profondo e accortosene all’improvviso, dopo 72 anni- chiede la rimozione della fotografia di Mussolini ministro delle Corporazioni nel 32? Che c’azzecca il professor Tomaso Montanari con l’amnesia tutta ideologica per il Giorno del Ricordo per la foibe titine? Perché Totò e De André oggi sarebbero dei pericolosi reazionari, al pari di Hemingway o l’Huckleberry Finn di Twain che s’accompagnava a “un negretto disincantato”?

Sono domande che Dino Messina, cronista e storiografo di pregio, legittimamente si pone nel saggio La storia cancellata degli italiani (Solferino, pp 256, euro 17). Anzi più che un saggio, la sua è un’inchiesta redatta con rigore entomologico sulla furia di un certa indignazione pop. Una furia cieca che chiede la cancellazione di targhe stradali, memorie, film, dipinti che non rispondono ai canoni etici attuali, di interi cicli storici. Cancel culture, appunto. Un sentiment pericolosamente à la page, sempre più diffuso tra i giovani digiuni di storia e tolleranza, e che cavalca l’idea talebana di leggere il passato con gli occhi del presente. L’ira di Bersani sull’effige del Duce è solo l’ultima goccia. “Ed è una polemica speciosa dettata dal fatto che va la destra al governo. Se togliamo la foto di Mussolini al ministero, dovremmo togliere nella galleria dei ritratti dei direttori del Corriere della sera anche tutti i direttori fascisti” reagisce Messina “Bersani è un vero liberale di sinistra, ma qui sta facendo la figura del comunista recitato da Maurizio Ferrini. Non si possono togliere, così, per ansia del politicamente corretto, 20 anni di storia. La storia bisogna raccontarla tutta, compresi capitoli oscuri e sono parecchi”. Il passato torna sempre, è implacabile. Se la foto del Duce transita nella galleria dei ritratti di palazzo Piacentini, allor, per slancio di coerenza, bisognerebbe abbattere tutti gli edifici di Piacentini, lussureggiante architetto del Ventennio.

In un capitolo del libro, Messina evoca infatti “Il fascismo di pietra” da una frase di Emilio Gentile e da una domanda posta da una famosa giornalista americana sul New Yorker: “ma perché gli italiani tollerano i monumenti fascisti?" Già perché? “Perché, banalmente, fanno parre del nostro tessuto culturale” insiste lo scrittore “c’era la scritta Dux sul famoso obelisco, c’era il palazzo delle Civiltà o Colosseo quadrato all’Euro. E c’erano, dietro l’obelisco, svettano mosaici meravigliosi a tema romanità lasciati all’incuria su cui i ragazzini si allenano con lo skateboard. Tutta Roma è un immenso omaggio al fascismo a cominciare dai tombini con l’SPQR, alla fine degli anni 70 Antonio Cederna, carico di ideologia, fece una battaglia per chiuderli o renderli invisibili”. Non è cosa nuova, la furia del politicamente corretto. L’Italia è disseminata di meravigliosi monumenti fascisti, “come il misconosciuto palazzo delle Poste di Grosseto”. Qualche soluzione a questa nuova feroce iconoclastia la si può trovare. Sta nella spiegazione didattica e nella contestualizzazione storica, per esempio. Nel libro si cita il caso di Bolzano. “Dove c’è la statua della Vittoria che fece la fortuna di Piacentini, e nei cui sotterranei gli italiani e gli schutzen; li hanno riadattati a museo “30 anni di storia 1918-1948 e hanno depotenziato così ogni polemica. Idem, nella stessa città per un noto bassorilievo che descriveva i fasti del fascismo coloniale in Africa: accanto alla statua equestre di Mussolini con la scritta, molto icastica, “credere, obbedire, combattere, ci hanno aggiunto, luminosa e in modo non invadente, una frase Hanna Arendt: “nessuno ha il diritto di obbedire”. E anche lì, hanno contestualizzato, e s’è spenta la querelle. “Ma gli intenti dietro quelle statue erano tutto tranne che razzisti: i monumenti ai generali, per dire, furono erette solo negli anni 80 dell’800 perché l’America voleva espandersi all’estero. E la retorica dell’orgoglio del vecchio sud richiamava quelle statue non per celebrare la schiavitù, ma per pacificare la nazione”, continua Messina.

Cancellare è da ignoranti, perché non si possono applicare i criteri morali odierni a un passato in cui vige un sistema valoriale completamente diverso. Dal libro emergono l’oltraggio alla vernice rossa, a Milano, alla statua di Montanelli, colpevole di essere stato fascista e di aver avuto in dono, in Eritrea, una sposa bambina (altro non era che l’applicazione eritrea dell’istituto del “madamato” che allora era normalissimo). Ed ecco l’attacco iperprogressista alle canzoni di Fabrizio De Andrè che stilettava le minoranze nel “Giudice”, “un nano è una carogna di sicuro/Perché ha il cuore troppo/ Troppo vicino al buco del culo”. Ed ecco le rampogne contro Totò “un campione del politicamente scorretto”; nella scena dei finti ambasciatori del Burundi con l’anello al naso in Tototruffa ’62, e anche nelle parole di Malafemmena “st’ommo t’avisse acciso…” che oggi vivrebbe l’oblio della censura femminista. Ed ecco la Giornata del Ricordo ritenuta da una parte della sinistra una “ricorrenza fascista”, nonostante il riconoscimento di una pagina nera della storia dimenticata da parte di Fassino o Violante. Ed ecco, che perfino Dante subisce gli artigli della cancel culture nel caso di quel traduttore olandese della Commedia che si rifutò di citare Maometto nell’Inferno per non urtare la sensibilità dei musulmani. E a S,Petronio i politici locali tolsero dalle audioguide la scena di Maometto squarciato dal mento all’ano inserito da dante tra i “seminatori d’odio”. “Ma se ci mettiamo anche a censurare Dante, è finita…”, sospira Messina.  

Ma la cancel culture è una deriva irrequieta del pensiero liberal americano. C’è sempre stata negli Usa, dai tempi dei salotti radical chic di Bernstein; ma è riemersa col movimento Black Lives Matter. Che ha attizzato la reazione inconsulta di abbattere le statue dei generali confederati, “schiavisti”; o quella di Cristoforo Colombo l’uomo che inventato l’era moderna ma che –secondo loro- schiavizzava gli indigeni; o addirittura la stele di Italo Balbo alla Balbo Drive di Chicago. E si potrebbe continuare all’infinito. La speranza è nel ritorno del buonsenso: “le asperità del passato non si possono nascondere e la complessità della storia non obbedisce alle ipersensibilità del presente….”

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