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Benedetta Tobagi vince il Campiello? Fascismi e poca memoria: scorda il suo tragico passato

Giovanni Sallusti
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Che una scrittrice mediamente impegnata si aggiudichi quel vero e proprio rito del mainstream che è il Premio Campiello con un’opera che è una strizzata d’occhio fin dal titolo, “La Resistenza delle donne”, perdipiù edita dal colosso Einaudi, è ovviamente una non-notizia. Che il circolino dei letterati e dei (ben)pensanti tenda a riprodurre se stesso nel perenne interscambio tra premiati e premianti (il presidente della Giuria in questo caso era uno dei massimi habitué dell’ambiente, Veltroni Walter), pure. Nel caso della fresca trionfatrice Benedetta Tobagi, tuttavia, c’è un sovrappiù di prevedibilità, da un lato, e di straniamento, dall’altro, ed è solo per questo che ne scriviamo. La prevedibilità dell’evento, qui, sfiora tratti bozzettistici.

Donne e Resistenza, il binomio perfetto per suonare corde già da sempre gradite alla comunità dei recensori, l’antifascismo eterno di Umberto Eco e il femminismo talebano di Elly e le sue sorelle, il tutto cucinato sotto il governo presieduto da una donna, orgogliosamente non femminista, orgogliosamente erede della storia della destra italiana, quindi in piena emergenza culturale e civile, dal punto di vista del circolino. Appena gli altri concorrenti hanno scorso il canovaccio della Tobagi, si saranno rassegnati al ruolo di comparse.

 

 

 

Il vero tema però è lo straniamento, e proprio perché vero richiede rispetto e consapevolezza della Storia, e delle storie. La cosa migliore è quindi partire dalla cronaca, dalle parole della vincitrice. «Riscoprire la vitalità e la fecondità dell'antifascismo» ridando voce a una «metà della Storia partigiana» che seppe «schierarsi dalla parte giusta»: questo è, a detta dell’autrice, il senso dell’opera. Detto così, un senso pure incontestabile, per quanto più che di una “riscoperta” si tratti dell’ennesima risottolineatura pleonastica.

La torsione attualizzante, però, è dietro l’angolo, forse è perfino la precondizione per sfoggiare il trofeo: «Chiaramente il primo elemento fortemente politico è quello di riscoprire il valore dell’antifascismo. In Italia è molto forte il modo con cui si attacca questo valore che invece è la radice e la matrice costituzionale». Qui, la narratrice forza definitivamente la mano alla giornalista. Oggi, anno del Signore 2023, sarebbe “sotto attacco” in Italia l’“antifascismo”, quindi si aggirerebbero tentazioni autoritarie e liberticide. Chi, dove, come, quando, Benedetta? L’abc del mestiere, non si può suonare l’allarme supremo, quello della dittatura alle porte, e poi ritirare il premio e iniziare a scambiarsi brindisi con la buona società, come se niente fosse.

La stonatura rimbomba ulteriormente con le specifiche successive: «La nostra è una società in cui ci sono sfide che hanno a che fare con l’immigrazione o con l’ambiente e noi vediamo che molte persone per paura si chiudono in se stesse, e magari tornano ad essere nostalgiche del peggio del Novecento che si esprime nelle chiusure dei nazionalismi”. No, il peggio del Novecento non si espresse solo nelle “chiusure dei nazionalismi”, è una definizione troppo parziale, che piace troppo alla gente che piace, ma che lascia fuori dal campo metà dell’orrore. Quell’orrore che, tra i mille altri modi, si manifestò anche in quella schifosa mattinata del 28 maggio 1980, lasciando sul selciato di via Salaino a Milano il corpo di Walter Tobagi, fuoriclasse del giornalismo e padre di Benedetta. Quell’orrore si chiama comunismo e fa parte, a tutti gli effetti, del “peggio del Novecento”.

A uccidere Tobagi fu un commando della Brigata XXVIII marzo, banda terrorista che comprendeva gentiluomini provenienti da formazioni come Brigate Comuniste, Unità Comuniste Combattenti e Formazioni Comuniste Combattenti. Non lo scriviamo per ridestare fantasmi e dolore contro i vivi, lo scriviamo perché proprio questa tragedia famigliare, come molte, troppe altre gemelle, mostra irrevocabilmente i limiti, l’anacronismo, la zavorra ideologica del contemporaneo antifascismo in assenza di fascismo (mentre il comunismo, notiamo en passant, è attualmente la veste con cui si presenta la seconda potenza della Terra, quella cinese). Oggi, chiunque non voglia rinunciare alla libertà nella vita reale, non solo nel dopogara dei premi letterari, non può che essere inflessibilmente antitotalitario. Antinazista, antifascista, anti-islamista (non anti-islamico, nemico delle teocrazie omicide) e sì, anche anticomunista. Come del resto era il socialista e cattolico Walter Tobagi. 

 

 

 

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