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Roma, schiaffeggia la figlia perché invia foto osé: i giudici la assolvono

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Schiaffo

Giordano Tedoldi
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Ieri la prima sezione penale del Tribunale di Roma, a chiusura di una vicenda cominciata otto anni fa, ha assolto una donna di 42 anni per alcuni schiaffi assestati alla figlia di dodici anni, e dunque oggi maggiorenne. I giudici hanno deciso per la «non punibilità», perché, hanno scritto nelle motivazioni, «la signora ha indubbiamente ritenuto di esercitare quel potere/dovere di educazione e correzione dei figli che deve essere riconosciuto in capo a ciascun genitore», anche se il Tribunale non manca di rilevare che, comunque, andrebbe valutato «se c’è stata proporzionalità tra lo ‘jus corrigendi’, esercitato legittimamente dalla madre, e un eventuale eccesso colposo» e, da questo punto di vista, «la madre ha ecceduto nell’impiego della forza nel redarguire la figlia [...] Tuttavia questo episodio risulta penalmente irrilevante, anche perché manca una querela per lesioni o percosse».

Per comprendere le ragioni di questa delicata decisione, bisogna ricostruire l’accaduto: siamo in una famiglia di quelle che i conformisti chiamano disfunzionali, dove non mancano le tensioni: la donna, che ha altri due figli piccoli, si arrangia con vari lavori, tiene in casa anche la propria madre, e non può contare sul supporto del marito, che se n’è andato. Un giorno vede la figlia, lo ricordiamo, dodicenne, chattare su Instagram. Nasce una discussione, la donna strappa il cellulare di mano alla ragazza e scopre che questa invia foto spinte a un diciannovenne.

 

 

 

Non aggiunge una parola e molla qualche schiaffo alla figlia, che riporta un occhio nero (o una ferita al labbro, secondo la Procura) e non va a scuola per una settimana. A orientare i giudici è stata determinante proprio la condotta successiva della figlia, che ha sempre dichiarato di volere bene alla madre e che, scrivono i magistrati nella motivazione, «ha giustificato la madre riguardo allo schiaffo, dimostrando un alto grado di maturità». La ragazza, ora, riconosce che mettendosi «nei panni di mia madre, ha fatto bene», perché «forse vedere una figlia sbagliare in quelle condizioni...», non senza sottacere che «la madre era stata pesante». Insomma, i giudici hanno trovato un equilibrio tra il diritto di un genitore di correggere il figlio che sbaglia, sia pure, come qui, esercitato in forme eccessive, e la «maturità» della figlia che ha ammesso di avere esasperato la donna con un atto particolarmente sprovveduto e, visto ciò che può capitare dando in pasto in una chat proprio foto intime (e da minorenne), dalle conseguenze potenzialmente molto pericolose.

La sentenza sembra contraddire una lunga e apparentemente inscalfibile tendenza a considerare, almeno in linea di principio, irresponsabili, e dunque impunibili, i minorenni e più in generale i ragazzi; ovvero a comprenderli assumendo pienamente le loro ragioni, dunque a giustificarli, e non, come invece ha detto la stessa figlia, a vedere anche le ragioni dei genitori e a mettersi nei loro panni. La prospettiva privilegiata è quella dei ragazzi, dei figli, sono loro al centro di tutta la questione educativa e il sottinteso è che se sbagliano, sia pure malamente, la colpa è dei genitori che non hanno saputo educarli. In questo scenario il paradosso è che i genitori sono colpevoli perché non hanno saputo educare i figli, ma se, d’altro canto, esercitano lo “jus corrigendi” come lo chiamano i giudici, sono autoritari e insensibili ai loro problemi. Allora una interpretazione è che il Tribunale di Roma abbia voluto sottolineare che i genitori hanno il dovere di correggere i figli: lo schiaffo, come mezzo, è stato chiaramente eccessivo, ma l’intenzione educativa della madre va salvaguardata.

 

 

 

D’altronde, la stessa donna (che evidentemente ha i suoi problemi) è stata condannata per maltrattamenti nei confronti dell’anziana madre, perché in tal caso non poteva ravvisarsi neanche il fine correttivo. È convincente questa posizione? A nostro avviso, no. È indicativa di una controtendenza, che può anche essere importante come contrappeso all’idea astratta secondo la quale i figli, in fin dei conti, non andrebbero affatto educati, ma lasciati liberi di sbagliare, e di capire da soli. Ma desta perplessità la rischiosa indulgenza di fronte all’uso della forza, anche quando colei che la subisce, a posteriori, dice di “capire”, affermazione che non sappiamo quanto attribuire alla “maturità” di cui parlano i giudici, e quanto al bisogno di non portare con sé ricordi troppo dolorosi o conflittuali. 

 

 

 

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