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Mestre, il quartiere dove vige la Sharia: "Si stanno comprando tutto"

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Serenella Bettin
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Le hanno chiuse qui. Dentro un recinto. Come fossero galline. Le hanno chiuse qui. Dentro questo recinto, come fossero esseri inferiori, indegne di vedere il verde, la luce, il prato, i fiori. Perché le donne musulmane sono destinate a questo. A vivere chiuse. Osservando il mondo attraverso una graticola sugli occhi, avvolte da una tenda. Siamo a Mestre, al parco Piraghetto, e ieri qui si è tenuta la cerimonia della fine del Ramadan. I musulmani hanno iniziato ad arrivare intorno alle 8.30 del mattino. E già da lontano si udivano i sermoni. I canti islamici si propagavano in tutta l’area circostante, giungevano nei vicoli, nelle case, nelle strade del pieno centro di Mestre. Quella che sta diventando il “piccolo Bangladesh”. Qui, dati aggiornati al 2022, ci vivono quasi 8mila bengalesi.

Hanno importato le loro leggi, le loro tradizioni, si sono comprati appartamenti, negozi, hanno investito. Ma soprattutto qui hanno fatto vivere la legge della Sharia. A pochi passi da Venezia. Appena arriviamo al parco, davanti a noi, c’è un’ondata distesa di uomini che si alza e si abbassa a seconda del canto dei sermoni. Quando il lamento va giù, l’onda si abbassa. Quando va su, si alza. Si muovono tutti all’unisono. Sembra un grande telo, mosse dalle onde del vento. Poi, subito dietro di loro, davanti a noi un grande tendone. Bianco. Steso tra gli alberi, appuntellato alla perfezione e retto in piedi da bastoni di legno. Tentiamo di guardare dentro, ma scorgere qualcosa è impossibile. Percorriamo il perimetro del tendone, ma sembra non finire.

 

 

 

Poi, saliamo sopra una muretta e lo spettacolo è indegno. Raggela il sangue. Dentro questo tendone, steso tra gli alberi, appuntellato alla perfezione e retto in piedi da bastoni di legno, ci hanno messo le donne. Chi col burqa, chi col velo integrale, chi con lo hijab, e chi con lo chador. Nemmeno le bimbe sono scoperte. Le donne stanno tutte qui, inginocchiate e genuflesse, ad assistere alla preghiera. Neanche l’imam possono guardare in faccia. Del resto, siamo nella città dove se passeggi di sera ci sono più bengalesi che italiani. Dove ci sono più donne in sari e niqab che in abiti occidentali. Dove ci sono interi quartieri popolati dai bengalesi, dove i Caf sono diventati musulmani, le lavanderie anche, le macellerie, i negozi di alimentari, perfino i parrucchieri. Le velate camminano tutte dietro all’uomo. Zitte. Buone.

 

 

 

«Io mia moglie non la porto in Italia», ci dice un bengalese. «Perché?». «Perché qui siete troppo libere, dopo impara vostra cultura e non va bene». Non appena usciamo da questo parco gravido di arretratezza, notiamo quella bimba. È bella. Bellissima. I capelli neri le circondano il volto. Avrà all’incirca quattro anni. Addosso le hanno messo un vestitino a pois. E la usano come statuina per far fare i selfie agli uomini. I suoi occhioni neri sono spenti come il sole di notte.

 

 

 

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