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Torino, l'imam fa il sermone all'università? Le donne dietro al recinto

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Andrea Morigi
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Torino come Kabul, come Gaza, come il Califfato. Un imam tiene il suo sermone per il jihad a un pubblico di persone scalze, sedute su tappetini e teli. E ripartite per sesso, in due locali diversi: da una parte gli uomini, in mezzo una grata di divisione, dall’altra le donne, discoste, rigorosamente velate. Il predicatore non le degna nemmeno di un’occhiata. Guarda davanti a sé con il microfono in mano, la kefiah sulle spalle e la bandiera palestinese appesa al muro dietro di lui. Non è una moschea, è l’interno dell’Università del capoluogo piemontese, durante l’occupazione. Dove ormai prevalgono le regole della sharia.

OCCHIO DI FALCO
Ci è voluto l’occhio attento di Anna Paola Concia, donna femminista e di sinistra, per scoprire i segni evidenti dell’avvenuta islamizzazione: «Una rete segrega le ragazze. Le femministe #propal che giustamente combattono il #patriarcato in Italia, sono d’accordo invece con questo trattamento riservato da quella cultura alle donne? Integrazione di chi?», si chiede polemicamente su X, postando e commentando la fotografia per «ribellarmi contro quell’immagine», spiega a Libero. E se nemmeno quella visione fosse in grado di provocare uno choc culturale, perché magari non scatta automaticamente l’identificazione con la condizione femminile nelle comunità islamiche, almeno va rilevata «la contraddizione» che, osserva Concia, consiste «nell’accettare e difendere una società che vi cancella. Prima o poi, qualcuno da sinistra lo doveva dire, no?». È un invito alle vecchie e nuove “compagne” di lotta a considerare che «la libertà femminile o è sempre o non è», con un obiettivo politico: «Liberare da Hamas le donne palestinesi».

Lo sa benissimo che chi osa criticare il fondamentalismo dei musulmani è accusato di violare la libertà religiosa. Ma non è un motivo per silenziare la questione dei diritti: «Non sono islamofobica». Lo sottolinea anche perché «da omosessuale, se vado a Gaza, in Iran o in Russia, mi impiccano».

Sia chiaro che, nell’ipotesi in cui l’indipendenza e la laicità dell’ateneo di Torino fossero state violate da esponenti di altre confessioni, non lo avrebbe comunque accettato. Ci tiene a precisare che la sua battaglia è «contro tutte le discriminazioni»: «Se un sacerdote cattolico avesse parlato contro l’aborto, mi sarei indignata nello stesso identico modo. Sono contraria a tutti i patriarcati. E non sono d’accordo con l’operato di Netanyahu e dei coloni integralisti in Israele. Però penso che si debbano prima liberare gli ostaggi per ottenere il cessate il fuoco a Gaza».

 

 

CULTURE A CONFRONTO
Nemmeno nelle università italiane sarebbe accolta con grande trasporto. «Forse mi farebbero tacere», concorda. Fortunatamente risponde al telefono da Francoforte, «dove il 53% della popolazione non è tedesca». E la circostanza le suggerisce il tema non accessorio e non marginale della convivenza fra comunità diverse e del «rapporto fra culture e civiltà nel nostro Paese, senza mettere la testa sotto la sabbia come fanno i partiti italiani, ma affrontando il problema con sapienza e buon senso».

La provocazione è partita. Ora ci si attende una risposta da quella «parte del mondo occidentale che odia se stessa- ed è un male- ma come pensa di costruire una società migliore?

 

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