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Sharon Verzeni e quella corsa a minimizzare: a sinistra due pesi e due misure

Daniele Capezzone
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Povera Sharon: oltre alle quattro coltellate fatali, è arrivato pure lo sfregio postumo di finire in mezzo alla propaganda e a qualche mediocre furbata. Si conferma la regoletta ben nota ai lettori di Libero: il trattamento politico e mediatico di un caso di cronaca cambia radicalmente – dal giorno alla notte – a seconda del fatto che esso sia funzionale o meno alla narrazione preferita dalla sinistra.

Se la storia può in qualche modo “servire” ai compagni, allora ci si monta sopra senza alcuno scrupolo, la si strumentalizza selvaggiamente, la si enfatizza, la si “spara” per settimane, e soprattutto la si generalizza, come se fosse l’esempio di un fenomeno diffusissimo e dilagante. In questo caso, è immediata la partenza di una campagna politica che naturalmente viene presentata come un “movimento spontaneo”, con tanto di hashtag che volano sui social, di opinionisti schierati, di conduttori che alzano la palla per gli schiacciatori amici.

 

 

 

Se invece la storia non è “funzionale” e magari rischia perfino di risultare controproducente rispetto alle tesi progressiste, allora la si smorza e la si riduce a un caso singolo-isolato-non generalizzabile. In questa ipotesi, i piromani di prima diventano pompieri, gli aizzatori si trasformano in disciplinatissimi ausiliari del traffico, gli urlatori in minimizzatori professionali, la macchina della colpevolizzazione in macchina – se non proprio della giustificazione – quanto meno della “spiegazione complessa”.

 

IL CONFRONTO

Serve un esempio e un termine di confronto? È sufficiente tornare a un’altra vicenda dolorosa e orribile di qualche mese fa: l’atroce assassinio di Giulia Cecchettin da parte di Filippo Turetta. Per carità: molte differenze balzano agli occhi, considerando il lungo rapporto pregresso tra quei due ragazzi, mentre nel caso di Terno d’Isola nulla aveva mai messo in rapporto la vittima con il carnefice. Ma – al di là di questa macroscopica differenza – una somiglianza di fondo resta innegabile: due ragazze entrambe vittime innocenti, e due uomini ugualmente responsabili di crimini indifendibili.

E invece? E invece, in termini di trattamento politico e mediatico, siamo di fronte a due polarità opposte. Nel caso Cecchettin-Turetta, la copertura del delitto è stata oggetto di un’ossessiva politicizzazione da sinistra: manifestazioni e campagne martellanti contro il patriarcato, più una colpevolizzazione generalizzata dei maschi, e una richiesta pressante – da sinistra verso destra – di pronunciarsi sui diritti delle donne. Al punto che – incautamente – non mancarono uomini che corsero a “chiedere scusa”, come se il solo fatto di appartenere al genere maschile fosse indice di una colpa, se non reale, almeno potenziale.

 

 

 

Se ci pensate – spostandoci negli Usa – si tratta della stessa logica in virtù della quale, ai tempi della morte di George Floyd, l’afroamericano rimasto ucciso nel 2020 a Minneapolis a seguito di un controllo di polizia, i bianchi in quanto tali furono tutti colpevolizzati. Divampò in tutto il mondo la campagna Black Lives Matter, e solo pochi coraggiosi anticonformisti – tra gli sportivi al di là e al di qua dell’Atlantico – si sottrassero al rito dell’inginocchiamento pubblico per significare la propria incancellabile vergogna di maschi bianchi. Perfino negli studi televisivi italiani, non mancarono conduttori e conduttrici che rischiarono di fratturarsi una rotula per il vigore con cui si affannarono a sbattere a terra il loro ginocchio.

Morale: quando una storia orribile va in direzione “utile” (cioè comoda per le strumentalizzazioni progressiste), scatta per un verso la grancassa mediatica e per altro verso la generalizzazione. Quando invece non “conviene”, si fa l’opposto: lo spazio viene velocemente ridimensionato, e si cerca di dimostrare che il caso è isolato e non rappresentativo di alcun fenomeno più vasto.

 

 

 

Nel caso di Terno d’Isola, questa seconda operazione è iniziata un minuto dopo la rivelazione dell’identità del reo confesso. Prima, l’attenzione mediatica era altissima e – parliamoci chiaro – con un sottofondo di colpevolizzazione neanche troppo subliminale del fidanzato di Sharon e forse della stessa vita di provincia in Italia. Ma un istante dopo che è emerso il reale profilo del killer, sono scattate le contromisure: in prima battuta, sparare la notizia della sua “italianità” (piccolo dettaglio: occultando le sue origini nordafricane); poi, cercando di montare una polemica contro Matteo Salvini (come se fosse colpa del leader leghista il fatto che a commettere il delitto sia stato un cittadino di seconda generazione); e infine – piano piano – tentando di spegnere l’attenzione mediatica, derubricando l’episodio a pura disgrazia.

 

PROSSIME TAPPE

Ora le prossime tappe sono fin troppo prevedibili. Vediamole nell’ordine. Si insisterà sulla fatalità e sull’attenzione da spostare su particolari irrilevanti: curiosamente ieri Repubblica (“Uccisa senza un perché dall’uomo in bici”) e Corriere della Sera (“Sharon uccisa dall’uomo in bici”), avevano lo stesso titolo: stai a vedere che adesso il problema diventa la bicicletta. Poi si procederà alla valorizzazione mediatica dei due immigrati regolari che hanno contribuito con la loro testimonianza a incastrare il colpevole: e naturalmente ci rallegriamo anche noi per l’elevato valore civico del comportamento di queste due persone straniere, ma il fatto che alcuni soggetti siano bravi e ben integrati non esclude purtroppo che altri non lo siano affatto.

Più audace sarà buttarsi sulla tesi del “raptus”: se uno esce di casa con quattro coltelli, serve molta fantasia per escludere la premeditazione. E allora resta il refugium peccatorum più classico, e cioè la giustificazione legata alla presunta “pazzia”: si sa, se il colpevole è di un certo tipo, è subito da lapidare; se invece è di un altro tipo (pensate agli attentati di matrice islamista) si va sulla “follia” o sulla “depressione”. Ieri non è mancato nemmeno il tocco di classe di chi, per arrampicarsi su specchiere sempre più scivolose, è arrivato a evocare la mitologia greca e la figura di Erostrato, cioè il tipo che per immortalare il suo nome, incendiò un tempio. Ecco, secondo qualche cervellone, anche Moussa Sangare voleva più che altro diventare famoso. E così, amici lettori, il triste circo della divagazione, della distrazione, dell’offuscamento, è già ufficialmente aperto: con relativi acrobati, intrattenitori, e soprattutto pagliacci.

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