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Pizza, un disastro per Napoli: ecco i premi Gambero Rosso, beffe clamorose

Luca Puccini
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Margherita. Perché il vero intenditore ha papille gustative solo per lei. Non per le varianti classiche (quattro stagioni, capricciosa, diavola) che fanno subito anni Ottanta; di certo non per quelle invenzioni dell’era moderna che, invece, raggiungono diversi livelli di insensatezza (dalla patatine e wuster su su fino all’aberrazione massima di quella con le fette di ananas). La pizza ha un nome proprio ed è Margherita. È una cosa semplice (e semplicemente irresistibile). La pummarola, il fiordilatte, un impasto che sia degno del nome che porta. E così basta poco per decretare quando vale davvero la pena sedersi a tavola e non pensare a nient’altro.

Tutto questo succede a Napoli come altrove. Anzi, succede soprattutto altrove. Posillipo, il Vomero, Totò e ti viene in mente subito lei. Fumante. Col cornicione. Patriottica perché con le sue due o tre foglioline di basilico ha fatto pure la bandiera nazionale. Epperò la città partenopea non è (più) tra le mete migliori pre papparsi in santapace questa agognata margherita vanto dell’italianità (anche all’estero). Non lo è, quantomeno, per l’ultima edizione (quella 2025) della Guida pizzerie d’Italia del Gambero rosso. L’unica, la sola, classifica “professionale” (quella personale ce l’abbiamo tutti, ma è un’altra cosa) della pala da forno a legna che assegna tre spicchi (o tre rotelle, qualora sul bancone ci siano le teglie al taglio) a chi della pizza ne ha saputo fare un’arte.

 

 

 

LA CLASSIFICA

Come Franco Pepe (campione indiscusso), della pizzeria “Pepe in grani” di Caiazzo, in provincia di Caserta, giusto per restare in Campania, che è al primo posto con 97 punti su cento e (ovviamente) i tre spicchi di cui sopra. E poi, ecco, è che non è più una questione territoriale: al secondo posto, con appena un punto di scarto, sì c’è la pizzeria casertana “I masanielli”, ma si impongono la “Renato Bosco” di San Martino Buon Albergo e “I tigli” di San Bonifacio (entrambe nel Veronese). E subito dopo, con un punteggio di 95, d’accordo per le due campane (“10 Diego Vitagliano”, la prima napoletana a comparire, e “Sarà Martucci- I masanielli”, di nuovo, di Caserta), ma sgomitano le romane “Clementina” (di Fiumicino) e “Sei pizza illuminati” (della capitale).

Che è successo a Napoli? Che non si fa strada nemmeno tra i premi speciali (quello per i maestri dell’impasto va a Simone Padoan della pizzeria “I tigli” di San Bonifacio e a Giancarlo Casa de “La gatta mangiona” di Roma; quello per il pizzaiolo emergente viene assegnato a Lorenzo Prestia del “Gran vivo” di Pontedera, in provincia di Pisa; quello per la ricerca e l’innovazione se lo prende la “Premiata Fabbrica pizza” di Bassano del Grappa, Vicenza)? Che non emerge neanche nel contest delle “pizze dell’anno” (piacciono quella piacentina della “Chiere” di Piacenza; la marinara cotta cilentana della “Baita al Cotruzzo” di Roccadaspide, Salerno; lo sfincione fenicio della “Ozio gastronomico” di Palermo)? Che non si impone manco per il miglior servizio di sala, per la migliore carta delle bevande o dei dolci, che, tra l’altro, con nomi di peso come quello di Gino Sorbillo perde posizioni?

Sorbillo, a onor di cronaca, nell’elenco 2025 coi tre spicchi uno dietro all’altro, proprio non compare: e dire che nell’edizione 2013, la prima, era lui il re della pizza (oggi, invece, sembra più il re delle polemiche, almeno stando al battibecco di qualche settimana fa con Flavio Briatore: lui, Briatore, che giudicava la pizza napoletana «una gomma da masticare» e Sorbillo che rispondeva, salvo poi presentarsi, pace fatta, una decina di giorni fa, all’inaugurazione del “Crazy pizza” di Napoli, che però «noi abbiamo una storia»).

 

 

 

750 LOCALI

Storia, sì, chiaro. Quella attorno a piazza del Plebiscito è innegabile. È il presente che raccoglie, semmai, 750 locali (quelli menzionati dal Gambero rosso) in tutto lo Stivale, da Sanremo a Ferrara, da Arezzo a Milano, da Torino a Pietrasanta. Alla fine, tuttavia, chissenefrega: è uno smacco per Napoli? Forse. Ma è anche il trionfo di una pietanza popolare (di napoletana primogenitura) che ha conquistato tutto il Paese. Viva la pizza (purché sia buona).

 

 

 

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