Poi andate a raccontarlo al signor Carlo che questo è un Paese che non si schiera mai con le donne, che le discrimina. Treviso. Domenica scorsa. Ai banchetti per l’iscrizione dell’undicesima “Treviso in rosa” che è esattamente ciò che dice il nome, ossia un evento ludico-sportivo pensato al femminile. Una di quelle corse che diventano presto un serpentone fucsia che balla, sfila e sfida pure il cancro al seno. Lodevolissima iniziativa, vediamo di parlarci chiaro, e infatti ha anche il patrocinio della Lilt, la Lega per la lotta ai tumori. Però provate a immaginare: ci sono ragazze dappertutto, ci sono guerriere con la maglietta rosa e lo zainetto di corda dello stesso colore, ci sono supporter, donne, bambine col cappello da baseball e un palloncino, ci sono le partecipanti con il nastro appuntato sul petto e c’è uno striscione, ai blocchi di partenza, che dice: “Prevenzione”. Ecco, pensate a tutto questo che assomiglia a una festa di piazza per oltre 10mila persone (perché lo è, e viva sempre chi resiste): e adesso immaginate un uomo.
Uno solo. Ha 64 anni e la barba grigia. In città, tra l’altro, lo conoscono più o meno tutti perché è andato in pensione da poco e prima faceva l’usciere all’ospedale. Si chiama Carlo Motta. Lo vedete, il signor Carlo, che si avvicina a un tavolo, si mette in fila, tira fuori il portafoglio ed esordisce: Vorrei-iscrivermi-il-tumore-alla-mammella-l’ho-vinto-anche-io? E vedete, subito dopo, che è costretto a fare retromarcia, a lasciare il posto, a farsi da parte perché nonostante un carcinoma effettivamente diagnosticato e nonostante la mastectomia veramente subita, non gli permettono di aggregarsi?
Questione di regolamento, diranno più tardi gli organizzatori (ed è vero, per carità, sul sito è scritto in stampatello maiuscolo e in grassetto: si tratta di una giornata “esclusivamente dedicata alle donne”), questione che quella kermesse è nata più per compattare il fronte femminile che per incoraggiare la ricerca oncologica, che se proprio voleva Motta poteva partecipare agli altri eventi (ci mancherebbe giusto il contrario): però, ora che il palco è smantellato e per strada non c’è più nessuno, non suona anche a voi come una beffa?
Il signor Carlo fa parte dell’1% degli uomini che ha dovuto fronteggiare un cancro tipicamente femminile (ogni anno, in Italia, ci sono circa 500 quelli nella sua condizione): ed è già abbastanza difficile così, come lo è per chiunque, ma se ci mettiamo che «purtroppo devo constatare che quando un uomo ha un tumore al seno non è trattato come le donne» (si sfoga lui e non si riferisce solo all’episodio del “Treviso in rosa”, aggiunge che negli incontri specifici sulla malattia spesso si è sentito trattato con molta leggerezza) il cerchio si chiude e non nel migliore dei modi.
Vanno bene tutte le “giustificazioni” trovate ex post. Va bene il girl-power (anzi, va benissimo), va bene l’attenzione, l’appoggio, l’impegno che forse fino a qualche anno fa latitavano e adesso sono sacrosanti perché se infondono coraggio anche solo a una infondono coraggio a tutti: però «senza mancare di rispetto alla manifestazione, perché non ampliarla in modo da dare la possibilità a chi ha sofferto di tumore di correre insieme a chi ha sofferto con loro?», domanda Carlo, dato che una malattia, in genere, non colpisce solo chi la piglia ma anche chi gli sta attorno. Vi sembra davvero una richiesta tanto assurda?