Fra tante emergenze, vere o il più delle volte presunte, a tutto pensavamo di dover far fronte tranne che a un’emergenza overtourism. Eppure, questo è ormai da tempo il leitmotiv di tante e dotte discussioni radical chic, che trovano purtroppo riscontro anche nella concreta azione di sindaci ed amministratori che chiudono le porte a quello che sprezzantemente chiamano “turismo di massa”.
I turisti, che gongolano per le nostre strade in questi giorni sudati e malvestiti, contrasterebbero con la bellezza delle nostre città d’arte e dei nostri paesaggi non adatti a sopportare una così massiccia “invasione”. E, d’altronde, vuoi mettere il sofisticato buon gusto che esigerebbero le nostre bellezze con il dozzinale girovagare di masse di sprovveduti! (I quali, detto per inciso, rimarrebbero certamente tali, ammesso e non concesso che lo siano, se non venisse loro data nemmeno l’occasione di acculturarsi). Quindi: numero chiuso, tariffe proibitive per l’ingresso in città e nei musei, e chi più ne ha più ne metta per scoraggiare i poveri malcapitati che avessero deciso di passare le loro vacanze nel Bel Paese.
Proprio ieri, a dar manforte ai “chiusuristi”, è arrivata la mappa dell'Indice Complessivo di Sovraffollamento Turistico (Icst), elaborata dall'Istituto Demoskopika, che ha segnalato come «ad alto rischio» Rimini, Venezia, Napoli, Roma ed altre prevedibili località.
Tanto allarme è giustificato? Ma non si era detto che un Paese come il nostro doveva dismettere le sue vecchie industrie inquinanti e puntare tutto sul turismo in quanto il patrimonio artistico e paesaggistico (insieme all’eccellenza culinaria) è l’unica, nostra vera e autoctona risorsa? E non era stato uno studioso di sinistra non sospetto, quale il compianto sociologo Domenico de Masi, a scrivere che il Mezzogiorno era avvantaggiato, rispetto al Nord Italia, perché, non avendo conosciuto la modernità industriale, poteva passare con più facilità ad una post-modernità basata su servizi e turismo? Era meglio la Napoli del degrado degli anni passati o quella di oggi invasa da turisti spesso esigenti? L’impressione è che ai nostri esegeti della sostenibilità turistica interessi non lo sviluppo e la ricchezza del nostro Paese, mala decrescita in quanto tale, che immaginano “felice”. In sostanza, fingono di difendere la qualità della vita delle nostre città e delle comunità locali, ma in verità sprizzano insofferenza (e anche un certo “razzismo”) per coloro che non possono permettersi le vacanze dorate che loro si concedono normalmente. La sola vista dei turisti li infastidisce.
Pur considerandosi progressisti, sono in verità i veri reazionari perché hanno, come direbbe Nietzsche, una concezione «antiquaria» della storia e dell’arte. La storia delle nostre città d’arte ci insegna al contrario che esse hanno saputo conservarsi nei secoli integrandosi perfettamente nel tessuto urbano e civile, di cui sono parte integrante, ovviamente adattandosi ai mutamenti storici. Si sono trasformate nella continuità, non sono rimaste chiuse in una campana di vetro che le rendesse immuni dal mondo esteriore. Con queste considerazioni non si vuol negare che si possano, e anzi si debbano, regolarizzare i flussi, spalmarli in modo da coprire l’intero anno, aumentare i servizi, promuovere al turismo anche tante zone non canoniche ma eccezionali dello stivale. Ma questi sono tutti accorgimenti che la sagacia e l’accortezza, nonché l’innata ospitalità, degli italiani, soprattutto se non ostacolata da interventi a gamba tesa di uno Stato pervasivo, riesce a risolvere da secoli. Non mi sembra invece di buon senso gettare il bambino con l’acqua sporca. Dobbiamo essere solo contenti che il buon nome dell’Italia regga nel tempo, così come del fatto, in una prospettiva metastorica, che il turismo non sia più appannaggio di pochi eletti come era al tempo del Grand Tour.