«No» significa «no». Restare in silenzio paralizzate dalla paura, avere un ripensamento – fosse anche all’ultimo momento – significa allo stesso modo «no». Solamente quando viene pronunciata la parola «sì» c’è il consenso, altrimenti è violenza. Dovrebbe essere un confine chiaro, riconosciuto, rispettato. Invece dire “no” viene in molti contesti considerato un affronto, un rifiuto, una sfida all’autorità da punire anche con la morte. È da questa sillaba breve che conviene partire per fare il punto sulla ennesima (ma necessaria) Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne: da quel «no» che dovrebbe aprire uno spazio di autodeterminazione, e che invece per molte di noi si trasforma in una condanna. È passato più di un quarto di secolo da quando venne celebrata la prima edizione (era il 1999), in memoria delle sorelle Mirabal, uccise trentanove anni prima, eppure siamo ancora qui a contare le vittime di questa strage continua, donne che hanno detto “no”.
VITA QUOTIDIANA
Tra gennaio e settembre 2025, in Italia, ne sono già state uccise 73, alle quali si devono aggiungere quelle che hanno perso la vita nelle scorse settimane per mano di un uomo al quale si sono ribellate. Ma il numero dei femminicidi, da solo, non restituisce la complessità del fenomeno: è solo l’estremo visibile di un continuum che comprende violenze psicologiche, economiche, molestie sul lavoro, ricatti affettivi, stalking. Un insieme che spesso rimane invisibile, anche a chi ne è vittima, perché si mimetizza nella vita quotidiana, nelle relazioni, nelle gerarchie professionali. I dati presentati dall’Istat fotografano una realtà consolidata: quasi una donna su tre, il 31,9% delle italiane dai 16 anni in su, ha subito nella vita almeno una molestia, un abuso. Una violenza. Stiamo parlando di 6 milioni e 400mila persone (mancano i numeri delle straniere che vivono nel nostro Paese, verranno resi pubblici a breve) che sono state o sono maltrattate. Il 33, 8% di loro parla di violenza psicologica (33,8%). Il 23% ha subito violenze sessuali e il 5, 7% delle volte si è trattato di uno stupro o tentato tale. In tutto ciò “lo stupratore non bussa, ha le chiavi di casa”: fatta eccezione per le minacce, infatti, oltre la metà delle violenze è commessa da un uomo con cui la vittima aveva una relazione o l’aveva avuta. Ma, come sappiamo, questi numeri, di per sé eloquenti, non danno la misura di quel quotidiano strutturale della violenza.
Accanto ai dati già allarmanti, l’Istat avverte infatti che la violenza rimane in larga parte sommersa. Solo il 3, 8% delle donne che subiscono violenze da un partner presenta denuncia. Il 22, 5% non ne ha mai parlato con nessuno prima dell’intervista, percentuale che sale al 37, 8% quando l’aggressore è il compagno attuale.
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Certo, è raddoppiato il numero di chi si rivolge a un centro anti-violenza, salito all’8%, ma questa crescita si scontra con una carenza strutturale: in Italia i centri sono 404, mentre la Convenzione di Istanbul ne richiederebbe almeno 624, cioè 220 in più. E quando la denuncia viene presentata, la risposta istituzionale non sempre produce fiducia. Tra le donne che hanno denunciato, il 55% avrebbe voluto una reazione più decisa nei confronti dell’aggressore; il 29% avrebbe semplicemente desiderato che la propria denuncia fosse presa con maggiore serietà. La mancanza di reazioni adeguate emerge anche sul piano delle prove giudiziarie. Una ricerca dell’Università di Torino – pubblicata su Forensic Science International: Genetics – mostra che i campioni biologici raccolti dopo una violenza sessuale vengono analizzati solo nel 7% dei casi. Su 1175 episodi trattati dal Centro SVS di Torino tra il 2003 e il 2023, l’autorità giudiziaria ha disposto accertamenti genetici solo in 92 situazioni.
Vuol dire che nel 90% dei casi le tracce raccolte non entrano mai nel percorso giudiziario, nonostante la fatica e il dolore necessari per ottenerle. Si tratta di un esempio di cosa sono costrette a subire le donne denuncianti, vittime anche di chi minimizza, di non ci crede, o fraintende.
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In tal senso va la proposta di modifica a un articolo del codice penale approvata all’unanimità in Commissione Giustizia alla Camera, che introduce il concetto di “consenso libero e attuale”. Lo hanno detto chiaramente sia la premier Giorgia Meloni, sia la segretaria del Pd, Elly Schlein: un rapporto sessuale senza consenso è stupro. Dovrebbe essere chiaro che “un no è un no”, e invece ancora una volta siamo costrette a scendere in piazza, sotto qualunque bandiera, per ricordare le nostre figlie, amiche, sorelle, madri e per fare in modo che le loro morti servano a salvare qualche altra donna.
Questo è, in definitiva, il senso del 25 novembre: non un rito sterile, ma il metro per misurare la solidità della nostra democrazia, la qualità del dibattito pubblico, la capacità delle istituzioni di garantire diritti. Quanto siamo disposti a fare, come società, perché quel «no» non comporti più rischi ma libertà?




