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La capacità di ristrutturare i processi e l'organizzazione è decisiva quando l'economia rallenta e non riparte

domenico d'alessandro
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Il dibattito si fa sempre più acceso e sarà destinato a durare nel tempo. L'industria manifatturiera è una delle colonne portanti del nostro Pil, rappresentandone ancora oggi circa il 25%,  ma si trova da anni sempre più in difficoltà nel competere con i Paesi emergenti. Si sta soprattutto registrando un progressivo disimpegno dei gruppi multinazionali che non vedono più nell'Italia quel paese conveniente e affidabile come era stato negli anni Settanta e Ottanta, puntando le loro strategie verso nuovi Paesi. La considerazione generale che nasce da tale stato di cose, è rappresentata dal fatto che non è necessariamente da uno stato di crisi che deve prendere avvio una riconversione. Anzi, è proprio nei momenti di relativa stabilità quelli in cui l'azienda è in grado di pianificare e valutare sviluppi futuri. Quale futuro, allora? La prima risposta è legata all'innovazione: sviluppare e mantenere in Italia quelle produzioni,  o fasi della produzione come il design, il testing, il prototyping, ecc, compatibili con i nostri costi e sostenute dalle nostre migliori competenze. La seconda riguarda la progressiva integrazione tra le politiche passive del lavoro, come l'erogazione degli ammortizzatori sociali,  e le politiche attive, come gli accordi di programma o di riqualificazione professionale. È oggi ineludibile garantire ai lavoratori che perdono il lavoro il sostegno al reddito. Ma sarà  sempre più necessario destinare risorse anche a quelle iniziative che consentano l'avvio di processi virtuosi di reimpiego e professionalizzazione che consentano alle persone di tornare rapidamente a operare in un contesto produttivo. La terza risposta è quella di garantire la continuità produttiva: uno stabilimento che si ferma per 2 o 3 anni, rischia di non essere più vantaggiosamente utilizzato, con macchinari che rapidamente perdono funzionalità. Quindi anche di fronte a crisi, delocalizzazione o progetti di acquisizione, è necessario trovare soluzioni che mantengano vivo il ciclo industriale. In una parola: riconvertire le professionalità e le produzioni. Queste risposte non possono venire da un unico soggetto, sia esso l'azienda o le istituzioni, ma devono essere il frutto di uno sforzo  e di una regia comune, che veda questi soggetti (istituzioni, imprese e sindacato) lavorare assieme nell'individuare e realizzare nuove iniziative nel rispetto delle reciproche prerogative. A questo ideale tavolo non potranno mancare di far sentire la loro voce, e le loro proposte, gli altri portatori di interesse come ad esempio le Banche e le istituzioni più vicine al Territorio. Riconvertire significa indirizzare persone e imprese verso nuove possibilità:  la capacità di intercettare quei trend che consentano di stare sul mercato, rispondendo alle necessità dei clienti. In questo senso il tessuto imprenditoriale italiano, composto in prevalenza da aziende piccole o piccolissime, sta dimostrando grande  capacità di risposta come è sempre stato storicamente, prova ne è che le esportazioni stanno facendo segnare risultati lusinghieri. Si incontrano sempre più frequentemente realtà che hanno deciso di cambiare rotta e puntare su settori promettenti: ad esempio continuare a produrre schede elettroniche per il mercato dell'elettrodomestico, oramai spostato verso Est ed Estremo Oriente, ma cominciare a sviluppare schede che possano supportare la gestione di impianti fotovoltaici ed eolici. Le imprese sono ora più che mai concentrate sullo sviluppo di prodotti e mercati necessitando di un supporto che faccia vivere loro un nuovo patto di responsabilità di impresa: una rinnovata attenzione al destino delle proprie persone. Di chi, sino a ieri, ha rappresentato la loro ricchezza. Da una parte regole e leggi che impongano iniziative sul destino delle persone, dall'altra un'attitudine nel fare impresa che arrivi anche a superare tali regole. Non si tratta di demonizzare le dismissioni o le delocalizzazioni, che fanno parte delle legittime libertà e necessità dell'impresa. Si tratta di pianificare per tempo quelli che saranno gli impatti che deriveranno dalle decisioni prese. Questo significa avere tempo per individuare un percorso che consenta la piena comprensione della situazione (competenze, lavorazioni, macchinari, ecc) e le possibili soluzioni che si possono far nascere da tale evento. È fondamentale l'elemento della tempestività, in quanto operare in situazioni di crisi conclamata rende il percorso più ostico e necessariamente ristretto nei tempi, mentre, disponendo di tempi più lunghi e in assenza di turbative sociali, le parti coinvolte possono fornire il loro apporto. Non si tratta di promettere soluzioni miracolistiche, che finiscono per frustrare inutilmente le aspettative dei soggetti coinvolti, ma strutturare un piano che venga incontro alle differenti esigenze rappresentate. Stefano Lalatta, amministratore delegato Gi Restart (nella foto)

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