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Le piccole e medie imprese scaldano il motore

Dopo le crisi di Merloni, Fincantieri e Btp, il tessuto produttivo delal Regione a statuto ordinaio con meno disoccupati torna a credere nel futuro

Giulio Bucchi
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Vista dalle Marche la crisi economica presenta un doppio volto. Da un lato, le difficoltà di una grande azienda come la Antonio Merloni, che in regione ha lo stesso peso simbolico che la Fiat ha in Piemonte. Dall'altro lato, la sofferenza di tante piccole e medie imprese, nate da un microcosmo di centinaia di botteghe e laboratori artigiani: protagoniste, prima, di un impetuoso sviluppo che ha reso il tessuto produttivo regionale assai simile a quello del Nord Est (le Marche sono la prima regione d'Italia, e la quindicesima d'Europa, per numero di addetti alla manifattura in rapporto alla popolazione attiva);  alle prese, poi, con la dura competizione globale e la concorrenza asiatica. Che questa doppia faccia sia spesso il recto e il verso della stessa medaglia, lo dimostra un fatto. La crisi della Merloni (in amministrazione controllata dal 2009, dovrebbe passare sotto il controllo degli emiri di Mmd, holding con sede a Dubai) è anche la crisi di quattrocento aziende artigiane sue fornitrici, che lavorano in monocommittenza. Come, del resto, il 60 per cento degli associati alla Confartigianato locale. Quanto alle ricadute della crisi sull'occupazione, secondo il rapporto Excelsior, realizzato da Unioncamere in collaborazione col Ministero del Lavoro e l'Unione europea, nel 2010 l'emorragia di posti di lavoro è continuata, anche se a ritmi più contenuti. La rilevazione si fonda sulle previsioni fatte dagli imprenditori a inizio anno e quindi attende ancora di essere confermata. I dati Istat di settembre, per esempio, erano in controtendenza, con un tasso di disoccupazione nel secondo trimestre 2010 in calo al 5,4 per cento, dal 7,5 per cento di fine 2009. Una differenza che si spiega in parte con l'ampio ricorso agli ammortizzatori sociali, che gli imprenditori non tengono in considerazione quando valutano la forza lavoro necessaria, ma ai quali poi ricorrono quando ce n'è bisogno. E tra gennaio e luglio 2010, ad Ancona e provincia le ore di cassa integrazione sono state quasi 9 milioni; mentre nello stesso periodo del 2008 erano state meno di 2 milioni e mezzo. Tornando ai dati Excelsior, le imprese marchigiane, fra entrate (più 5,8 per cento) e uscite (più 7,6 per cento), prevedevano per fine 2010 un saldo negativo dell'1,8 per cento. In linea con la media nazionale (meno 1,5 per cento), il dato si traduce in 6.120 persone senza più lavoro. Il capoluogo, Ancona, è tra le aree più sofferenti: saldo negativo del 2,2 per cento (2.540 persone; solo Fermo fa peggio, con un meno 2,6 per cento). Nel 2009 il saldo era stato del 2,5 per cento. Un lieve miglioramento, quindi, c'è stato, ma dalla crisi non si è ancora usciti. Sempre ad Ancona e provincia, nei primi nove mesi del 2010 si sono registrare 138 sentenze di fallimento. «Il nostro mercato del lavoro continua a soffrire in maniera pesante gli effetti della crisi», conferma Rodolfo Giampieri, presidente della Camera di commercio di Ancona, «anche se, con riguardo al dato complessivo dello scorso anno, cui queste informazioni statistiche si riferiscono, il quadro è parzialmente migliore rispetto a quello del 2009. Da una parte il tasso di assunzioni è ancora piuttosto debole, ma si è ridotto il flusso in uscita: rispetto al 2009 ci sono stati 900 licenziamenti o mancati rinnovi di contratto in meno». Se i licenziamenti diminuiscono, il vero problema è il mancato aumento delle assunzioni. E ciò, ad Ancona e provincia, è particolarmente vero per le microimprese (da uno a nove addetti), che tra entrate e uscite denunciano un saldo negativo del 5,5 per cento, più che doppio rispetto alla media nazionale (2,5 per cento) e preoccupante anche se paragonato alla media regionale (3,3 per cento). Per le imprese tra i 10 e i 49 dipendenti il saldo è invece pari all'1,1 per cento; che diventa l'1,2 per le imprese con 50 e più dipendenti. Sono proprio i settori che rappresentano i punti di forza della provincia a dare i segnali peggiori. Le imprese che producono macchinari e apparecchi elettrici ed elettronici (il polo degli elettrodomestici, che ha il suo cuore a Fabriano che sconta anche gli effetti della crisi Merloni) mantiene ferma a 300 unità la richiesta di nuovo personale, come nel 2009, mentre le uscite salgono a 860 unità. In difficoltà anche il settore della lavorazione del metallo (270 posti in meno), della moda (oltre 200 posti in meno) e di alimentare, mobili e carta (oltre 200 posti in meno). Grave anche la situazione delle imprese edili, con 870 uscite a fronte di 420 entrate. Le poche note positive vanno cercate nel settore dei servizi: il supporto alle imprese (marketing, consulenze informatiche o legali, ricerca scientifica, ecc.) registra un saldo positivo: 70 posti di lavoro in più. Anche nei servizi sanitari c'è un segno più, con 50 posti aggiuntivi. Ma la lettura è duplice, se si pensa che il dato è condizionato da un fattore anagrafico non entusiasmante: la media di ultrasessantacinquenni nelle Marche è superiore del 20 per cento a quella nazionale. di Alessandro Giorgiutti

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