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Vittadini: "E' la Lombardia l'esempio da seguire"

Il presidente di 'Fondazione sussidiarietà: "Educare, non addestrare. La dote-lavora funziona. Aiutare i giovani a crescere"

Andrea Tempestini
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Non serve addestrare, serve educare. È questa la sintesi che Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà,  fa del quinto rapporto "Sussidiarietà... e istruzione e formazione professionale", presentato qualche giorno fa a Roma. Vittadini, dal rapporto emerge che l'impostazione sussidiaria della formazione determina soddisfazione maggiore rispetto a un'impostazione tradizionale, quella dei cosiddetti corsi Ips, degli Istituti professionali di Stato. Qual è a suo parere il valore aggiunto? «I centri di formazione professionale (Cfp, ndr) raccolgono anche molti ragazzi espulsi dal percorso scolastico tradizionale. Dalla nostra indagine è emerso che il giudizio complessivo dei qualificati sull'insegnamento è ottimo nel 31% dei casi, contro il 15% degli Ips. La ragione di questa diversità? I Cfp – penso alle realtà salesiane, ad esempio, ma anche a realtà nuove come Cometa a Como - sono centri che trasmettono entusiasmo, passione, voglia di studiare e di applicarsi. Anche attraverso, ad esempio, attività formative non curricolari. Una motivazione ideale aiuta i ragazzi a trovare la loro strada. Questo tipo di formazione che sto descrivendo è particolarmente importante in quanto interviene spesso sull'io ferito di chi ha abbandonato la scuola, aiutando a ridestare il desiderio di impegnarsi». Da alcune indagini emerge che ben il 38% degli studenti ritiene la scuola “un luogo dove non si ha voglia di andare”. Questa disaffezione, a detta del rapporto, è uno dei principali problemi educativi di oggi. Come intervenire? «L'Italia ha effettivamente altissime percentuali di abbandono scolastico. Vedo però che nell'ambito della formazione professionale una rivoluzione sta già avvenendo là dove -  come in Lombardia - si sia data la possibilità di scegliere, attraverso la “dote lavoro” ad esempio. Gli enti formativi lombardi da 3200 che erano sono divenuti 700, migliorando efficacia e efficienza. Nel contempo si sono date molte più opportunità ai ragazzi che così possono scegliere dove formarsi e questo genera un clima molto positivo. Questo cambiamento non avviene laddove invece la politica pensi semplicemente a finanziare con fondi a pioggia delle realtà, senza sapere riconoscere quelle che meglio rispondono ai bisogni educativi e formativi». Che cosa risponderebbe alle polemiche sulla riforma Gelmini? Questa dicotomia tra istituti statali e centri di formazione che viene sottolineata nel rapporto sembra andare nella stessa direzione... «Guardi, molto semplicemente è inutile continuare con le ideologie. Facciamo polemica alla scuola libera proposta dalla riforma e vogliamo difendere a priori la scuola statale? Non è qui il problema. Guardiamo piuttosto all'alto tasso di abbandono, alla disaffezione per la scuola che dilaga. Se non riusciamo a comprenderla non riusciremo a comunicare con i ragazzi. Qualche tempo fa mi ha colpito un dato che riguarda il mondo del volontariato: i volontari in Italia hanno un'età media che supera i 50 anni. Questo è un dato che rende evidente la scarsa motivazione delle nuove generazioni. Come possiamo non farci i conti?». Già, ma dal rapporto emerge anche che quanti  si formano negli istituti professionali di Stato trovano un lavoro più di chi si forma nei Centri di formazione professionale. E i primi guadagnano anche di più… «Sì, perché tre anni non bastano. E questo è un altro merito della riforma Gelmini, che innalza a 5 anni il corso dei Cfp. Occorre anche tener presente che chi si forma in questi centri inizia il percorso con un gap maggiore degli altri. Ci sono ragazzi che si rifiutano di entrare in classe, persino, però alla fine sono contenti del corso di studio svolto. E se la retribuzione è generalmente più alta per chi segue un corso tradizionale, non è così ovunque, ad esempio. Le esperienze virtuose crescono, bisogna però che abbiano spazio». Ma secondo lei le aziende hanno capito davvero questo concetto? «Certamente. Le aziende hanno bisogno di persone che conoscano un mestiere. Purtroppo gli italiani hanno abbandonato i mestieri manuali, pensando che il successo possa derivare solo dai lavori intellettuali. E oggi a che cosa assistiamo? Chi fa l'elettricista, il falegname o l'idraulico ha un reddito molto più alto di chi si dedica al pensiero. Alla base dell'innovazione di prodotto c'è spesso anche la manualità. Dobbiamo riscoprire questo valore». di Giulia Cazzaniga

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