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L'antologia di Don DeLillo: nove pezzi contro il conformismo

Don DeLillo

I racconti del maestro americano dal 1979 a oggi. Pagine per lettori raffinati che demoliscono i luoghi comuni su religione, tv e intellettuali

Andrea Tempestini
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di Gian Paolo Serino Il vero dramma di un libro come L'Angelo di Esmeralda, nove racconti firmati da Don DeLillo, è che sia più commentato che letto. Uscito nelle librerie  per Einaudi (pp. 208, euro 19) negli Stati Uniti è stato pubblicato lo scorso anno (con una copertina geniale: le ali di un angelo color giallo shocking su sfondo nero) e incoronato dal New York Times al primo posto dei cento migliori libri al mondo del 2011. Un riconoscimento forse esagerato per un libro che merita indubbiamente la lettura, ma che non è certo di facile comprensione per chi affronta lo scrittore italo-americano per la prima volta.  Sia chiaro: sono racconti grandiosi, sospesi tra la sideralità dello sguardo narrativo e un linguaggio molto vicino al parlato newyorkese (ottimo lavorio e salti mortali, non sempre riusciti, per la traduttrice italiana Federica Aceto).  Più che racconti, sono un laboratorio di scrittura, il prequel a livello di concepimento dei suoi romanzi più riusciti. Non tanto Underworld, quello che da tanti è riconosciuto come il suo capolavoro, ma che in realtà è l'opera più noiosa e meno comprensibile al lettore italiano, che lo scrittore abbia pubblicato: un romanzo diventato di culto, come il pluriosannato David Foster Wallace, ma il cui demerito è di aver creato più che lettori innumerevoli scrittori epigoni in ogni parte del mondo. ROCKSTAR E ASSASSINI Il vero DeLillo è quello di Great Jones Street (l'inferno di una rockstar smarrita raccontata in prima persona attraverso la macchina devasta sogni dello show-biz), di Libra (l'assassinio di Kennedy attraverso lo sguardo narrativo di Lee Oswald), di Rumore bianco (riuscitissima parodia degli intellettuali postmoderni, impegnati spesso a disquisire su argomenti come la «semiotica delle etichette alimentari»).  I racconti, scritti tra il 1979 e il 2011, dimostrano come DeLillo sia l'unico scrittore capace di raccontare il nostro «trapassato presente». DeLillo è il più grande degli scrittori nostalgici: nostalgia di un universo, anche narrativo e di scrittura, ormai perso molto spesso nella commercialità della lettura. Qui non troverete nove  «pezzi facili», ma letture una soglia di attenzione non  da poco. Abbastanza facile perdersi nei labirinti narrativi  se non ci si sintonizza con un DeLillo che spinge al massimo l'acceleratore sul vero problema del nostro mondo: proprio la mancanza di attenzione e la ricerca, in ogni libro, di uno specchio narrativo ci conforti e ci faccia rientrare in quell'unità di pensiero che è il nuovo grande utero materno della nostra società.  Nessuno sconto al lettore, ma  al contempo nessun rischio di noia. Lo sguardo di ogni racconto è quasi uno sguardo assente: come se lo scrittore scrivesse da un altro pianeta. Ed è la metafora costante che accomuna tutti e nove i racconti.  Come fa dire a uno dei due astronauti dimenticati in orbita durante la Terza guerra mondiale nel racconto Momenti di umanità (non a caso scritto nel 1983, l'anno apocalittico immaginato da George Orwell ne Il Grande Fratello): «A me piace che le parole abbiano una certa reticenza, che rimangano aggrappate ad un punto scuro nel più profondo dell'interiorità».  Il punto di vista del DeLillo formato racconto è in L'Acrobata d'avorio (1988) quando la protagonista sottolinea che «si sentiva svuotata di qualsiasi supposizione, persuasione, complicazione, bugia, di qualsivoglia intreccio di combinazioni che rende possibile vivere». DeLillo ha compreso che siamo soltanto «campioni biologici alla deriva» e per rifuggire all'idea dell'inutilità della vita, per rifuggire all'idea della morte come se la vita fosse qualcosa di garantito, cerchiamo di mettere a tacere l'idea della morte con ansiolitici, droghe, tv, religioni, lavoro che diventano oasi di sicurezza congelata. FEROCIA TOTALE Il DeLillo più feroce lo troviamo nel racconto che dà il titolo alla raccolta e che ne rappresenta il fulcro centrale del libro: L'Angelo Esmeralda (1994) in cui le protagoniste sono due suore che si muovono in una New York periferica, degradata e senza speranze (lo stesso Bronx nel quale DeLillo, di origini abruzzesi, è nato e cresciuto). Un luogo dove  i bambini più che diventare adulti diventano adulterati, dove sopravvivere è il maggiore dei lussi: un luogo dove si incrociano le vite parallele di marginali e di pendolari dell'esistenza in fuga verso sogni alla deriva.  Alla ricerca di un miracolo che non c'è: in questo caso l'apparizione di un murales che ritrae Esmeralda, bimba uccisa e violentata. Ed è in questo racconto che troviamo il miglior DeLillo, quello più combattivo, incapace, come tutti i protagonisti dei suoi quindici romanzi, di piegarsi alle regole delle convenzioni e convinzioni sociali. Quando prende posizione nei confronti della religione («La preghiera è una strategia pratica, l'acquisizione di un vantaggio temporale nei mercati dei capitali del Peccato e dell'Assoluzione») oppure della Legge non divina ma umana che pretende di condannare più che di giudicare,  tanto da richiedere «le forbite locuzioni vittoriane che i moderni tribunali hanno adottato per fare pendant con i pannelli di legno»; della fuga nella droga («Quando sai in fondo di non valere nulla, solo un gioco d'azzardo con la morte riesce a soddisfare la tua vanità»). E poi ancora sulle regole della comunicazione: la condanna sociale  al «disgustoso sciacallaggio sulla morte di una bambina al telegiornale della sera»: ma lo sciacallaggio non parte dalla televisione o dai giornali,  bensì dal nostro  essere spettatori.  Quelli che descrive DeLillo siamo noi: persone oltraggiate, ferite, vulnerabili, perennemente alla deriva, perennemente in fuga da noi stessi oppure talmente intimisti da allontanarci dal mondo, ma non dal suo sguardo.  Ed è questa la vera bravura e unicità di DeLillo. Perché, come scrive Martin Amis, i grandi scrittori come DeLillo possono portarci dove vogliono, ma la metà delle volte ci portano dove non vogliamo andare.

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