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Gli chef superstar via dalla tv Non sanno neanche cucinare

Su 'Monsieur' un articolo che fa a pezzettini i cuochi che vanno tanto di moda sui piccoli schermi di tutto il mondo

Andrea Tempestini
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Pubblichiamo un articolo integraledi Paul De Sury, che sarà sul numero di settembre di «Monsieur», tra qualche giorno in edicola.  Protagonisti gli chef  che affollano le  televisioni con consigli   e critiche senza  mostrare quello che sanno fare. Adoro cucinare. La mia idea di un giorno di vacanza è uscire all'alba per fare la spesa e passare il resto del giorno fra i fornelli. Ho diverse centinaia di libri di cucina. Li consulto ogni giorno. Tutte le donne che ho avuto (di qualsiasi Paese, etnia, età) mi hanno sempre rimproverato per il casino, che ha regolarmente sistemato la cameriera, e la quantità. «Non esagerare come al solito», mi sento dire da trent'anni. Ce ne fosse stata una che invece di blaterare si fosse messa a pulire i carciofi o a pelare le fave. Non importa. Lo faccio per me. Poi, di solito, non mangio neanche. Anche perché bisogna assaggiare e, quindi, bere. Indossare il grembiule diventa l'alibi, sempre che ce ne fosse bisogno, per aprire una bottiglia di bianco a ore impossibili. Dopo 12 ore in cucina voglio solo andare a letto. Sono moderatamente bravo. «Dovresti aprire un ristorante», mi dicono. Manco morto. Ho la sindrome del boscaiolo dilettante. Che cosa vuole dire? Mi spiego. Immaginate: è domenica. Siete a colazione in campagna in casa di un amico. «Ho un albero malato da abbattere, mi date una mano?». Mettete uno strumento pericoloso come un'ascia o una sega elettrica in mano a un maschio, chiedetegli di distruggere qualcosa, e vi amerà per tutta la vita. L'invito sarà accolto con entusiasmo da tutti i presenti di cromosoma XY. Le signore si limiteranno a roteare i bulbi oculari e rivolgerli verso il cielo. Compiuta la missione, i maschietti, gonfi di soddisfazione, si abbandoneranno a manifestazioni di cameratismo. Provate a chiedere a uno di loro se sarebbe disposto a svegliarsi ogni mattina all'alba per fare la stessa cosa per 300 giorni all'anno e sentirete che cosa vi risponderà. Non aspettatevi un'adesione incondizionata. Comunque, sto divagando. Volevo solo proclamare la mia adorazione per il feticcio prima di abbatterlo. Non ne posso più dei cuochi in televisione. Le trasmissioni di cucina mi procurano ormai lo stesso piacere delle telenovela colombiane che qualcuno, non faccio nomi, cerca subdolamente di propinarmi tramite accorte sottrazioni del telecomando. Basta! Il cuoco è stato per anni l'umile operaio dell'antro di Vulcano a cui veniva riconosciuta un'unica via di fuga dall'anonimato: un piatto intitolato sul menù. Le penne alla Mario o gli spaghetti alla Gino. Insomma, il solito primo con l'aggiunta (inutile) di due cucchiai di panna o uno di curry. In ogni caso, un onesto artigiano che conduceva con umiltà, e a tratti con perizia, il suo lavoro. Difficilmente il suo volto era noto agli avventori più assidui, figurarsi alla nazione intera. Appannato l'interesse per gare sportive e canore dopate o corrotte, i programmatori televisivi fanno oggi cantare alle loro sirene inni al branzino pescato all'amo o al pecorino di fossa. Siamo partiti dalle matrone rassicuranti del duo Clerici-Parodi. Innocue. «Per gli spaghetti al pomodoro, bisogna tagliuzzare una cipolla, poi soffriggerla, aggiungere il contenuto di una scatola di pelati». Poi sono arrivate le gastrostar (*). Truci, alla Gordon Ramsay, o piacioni, alla Jamie Oliver. I guru. L'aspetto ridicolo è che sono tutti mischiati. Geni dal curriculum impeccabile con il tostatore di panini dell'Autogrill. Ho visto di recente una trasmissione, come al solito presentata come gara, in cui tre dei più grandi chef italiani presentavano degli allievi che eseguivano i loro piatti. Tra i giudici un cuoco a me sconosciuto esprimeva, non senza una punta di saccenteria, rilievi e critiche. «Chissà chi è?», ho pensato. Mi tengo un po' aggiornato, grazie ad amici che scrivono di gastronomia, ma non l'avevo mai sentito nominare. Due giorni dopo l'ho visto, per caso, preparare una zuppa in televisione. Era un cacciucco. A un certo punto ha dichiarato trionfante: «Così è diventato una bilabà!». «Che cosa diavolo sarà?», mi sono chiesto. Grazie alle moderne tecnologie l'ho riascoltato tre volte e sono giunto alla conclusione che volesse dire bouillabaisse. Pazienza storpiare un nome così musicale che ti fa venire voglia di mangiare il piatto solo a sentire il cameriere pronunciarlo, ma dovevi proprio andare a stuzzicare gli orgogli locali di due città i cui abitanti sono noti per la tolleranza e la paciosità d'animo? Prova ad andare in una bettola negli angiporti di Livorno o Marsiglia e dire portatemi un cacciucco o una bouillabaisse che tanto è la stessa roba. E poi, santa pazienza! Fai il cuoco, mica il ceramista o l'astrofisico, e non conosci neanche il nome di una delle glorie della cucina regionale francese. La conclusione: cari cuochi, lasciate il set e tornate in cucina. I programmi televisivi non vi aggiungono niente. Non ci sarà mai un abbrutito che si ingozza di surgelati scaldati al microonde (**) che dirà alla moglie, vedendovi preparare in televisione la queue de bœuf à la façon de Cambrésis: «Ecco avrei voglia di mangiare proprio quello. Prenota che domani sera ci andiamo». E, soprattutto, state lontano dalle competizioni. Volete essere giudicati da qualcuno che presenta i segreti delle polpette o delle tagliatelle della nonna, magari saltellando con la leggerezza di un bufalo d'acqua? (*) Vi siete inventati le archistar, avrò diritto anch'io a un neologismo terrificante?  (**) Il più abbrutito di tutti, il sottoscritto, si inietta direttamente in vena, fra il primo e il secondo tempo, delle robuste dosi di minestrone preparato all'uopo una volta alla settimana e poi congelato. Per cui chi è senza peccato... di Paul De Sury

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