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Fini tosato pure dai pecorai: Siamo persone serie, noi...

Il leader Fli aveva criticato le intemperanze della Lega alla Camera: "Fischi da pastori". Replica piccata della categoria

Giulio Bucchi
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Prologo. Giovedì 15 dicembre, aula di Montecitorio. C'è la discussione sulla manovra e i leghisti, ebbri di opposizione, stanno facendo vedere i sorci color Padania all'emiciclo tutto: cartelli, contestazioni, insulti, ostruzionismo. A un certo punto dai banchi del Carroccio iniziano a levarsi ululati di fischi, ed è allora che il presidente dell'assemblea Gianfranco Fini perde il proverbiale aplomb: «Quelli che fischiano», apostrofa i reprobi, «sono i pecorai, non i deputati». La frase, ancorché a effetto, non sortisce grossi risultati: i leghisti continuano a fare il diavolo a quattro finché Fini non ne caccia due dall'Aula (seguirà accenno di rissa con quelli di Fli). Avanti veloce a ieri mattina. Quando arriva la notizia che l'uscita di Fini ha creato un pasticcio politico-diplomatico, mandando su tutte le furie la categoria coinvolta. Parlamentari offesi dal paragone? Nossignore, a prendersela con Gianfranco sono i pecorai. Che, nella persona del presidente dell'Associazione abruzzese ovinocaprini Nunzio Marcelli, prendono carta e penna e mandano al capo di Fli una letteraccia per protestare contro l'improvvido accostamento: «Non ci paragoni,   Presidente, ai Suoi colleghi: noi siamo fieri di essere pecorai». Il punto è che i pastori, con la Casta, hanno il dente parecchio avvelenato. E l'antipolitica spicciola c'entra fino ad un certo punto. Le lagnanze del settore di cui il Marcelli si fa portavoce, sono tutt'altro che male argomentate. Primo, è indubbiamente seccante essere usati come termine di paragone dispregiativo quando si è eredi di «una civiltà che ha   portato fino a noi palazzi storici, tratturi, riposi e templi,   formaggi e tessuti che hanno contribuito a costruire quell'Italia sana  che le nostre istituzioni dovrebbero rappresentare». E poi perché la disaffezione del Palazzo per la pastorizia è non solo linguistica, ma anche tangibile. E viene praticata mediante «la costante persecuzione burocratica e l'assenza di ogni intervento di   difesa dei nostri migliori prodotti e produttori da parte di quelle   stesse istituzioni che Lei rappresenta». In soldoni, gli allevatori ce l'hanno coi politici «perché quelle leggi che   dovrebbero tutelarci, onorevole Presidente, voi parlamentari non le avete   fatte». E sì che il buon esempio ce l'avrebbero a due passi: «in altri Paesi a noi vicini», è ricordato nella lettera, «i “pecorai” da Lei   così sprezzantemente citati vengono remunerati per il loro ruolo   fondamentale, richiesti dai migliori alberghi della Costa Azzurra per   la funzione di prevenzione antincendio del pascolamento, difesi dalle   istituzioni che valorizzano i loro prodotti e la loro immagine». Pertanto, ciascuno al proprio posto: «Le istituzioni», conclude Marcelli, «ripensino seriamente il loro   ruolo e la loro funzione, e non paragonino lo spettacolo spesso   indecente della politica italiana a chi duramente e faticosamente   porta avanti un'attività che ha un orgoglio e una tradizione che si   radica nel meglio della civiltà del nostro Paese». Perché un giorno da pecoraio è molto, molto meglio di cento giorni da Fini. di Marco Gorra

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