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Milano, il campo rom dove "spariscono" le auto: degrado infinito

Massimo Sanvito
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Gli sguardi, dalle auto che sgommano su e giù per l’imbuto che costeggia il muro di cinta dell’Ortomercato, dicono tutti la stessa cosa: «E questo cosa ci fa qui?». Ghetto rom, più che campo, quello di via Bonfadini: la Milano da copertina patinata è lontana mille chilometri da questo Triangolo delle Bermude dove vagonate di auto spariscono e diventano cenere. Date alle fiamme, prima di essere spolpate di ogni loro componente - volanti, cruscotti, portiere, navigatori, specchietti, fanali -, rivenduta sul mercato nero o usata per riparare veicoli incidentati.

Una, due tre... 64 macchine carbonizzate nel primo tratto fino al ponticello della ferrovia. Una, due, tre... 30 macchine smontate, non ancora del tutto, davanti all’ingresso del villaggio. Una, due, tre...un’altra sessantina di macchine sepolte dalla vegetazione tra l’insediamento e i binari dove sferragliano i treni. Totale: 150 vetture (soltanto una moto) rubate e cannibalizzate. Tutti sanno, nessuno (o quasi) fa nulla. «Le incendiano di notte, è gente che viene da fuori...», dice sorridendo una residente del campo mentre fuma affacciata alla finestra. «Non lo sappiamo chi ruba queste auto... siamo onesti: qui ognuno si fa i cazzi suoi», aggiunge un giovane sotto il porticato di casa. «Io esco la mattina presto e torno la sera tardi: non so niente.

 

 


Spesso siamo noi a chiamare i Vigili del Fuoco quando ci sono gli incendi», spiega un signore che sta rientrando con una vecchia station wagon. «Io lavoro e penso solo alla mia famiglia: mio figlio va a scuola e l’ho iscritto pure in palestra. Voi giornalisti siete pericolosi però...siete come le pulci», racconta un ragazzo pieno di tatuaggi. «Fate i soldi su di noi», gli fa eco una ragazza, dal finestrino della sua macchina.

 

 

 

«Non me ne frega nulla di quello che succede», taglia corto una signora che sta lavando con la canna l’ingresso della sua dimora. «Andate via, non sappiamo nulla», gridano due ragazze. Davanti a casa loro ci sono un motore sdraiato a terra, un’auto rovesciata su un fianco e una pila di gomme. Qualche passo più indietro, all’interno di una struttura circolare, sono accatastate montagne di pezzi di ricambio. È tutto alla luce del sole. Le bocche, però, sono cucitissime. Non scappa nulla. È omertà totale.

 

 

 

«Almeno un paio di volte al mese ci tocca chiamare i Vigili del Fuoco per evitare che le fiamme vadano oltre ed entrino nell’Ortomercato dove ovviamente ci sono materiali infiammabili. E non capita solo di notte, ma anche in pieno giorno...», ci spiega uno degli uomini della security incaricati da Sogemi di tenere sotto controllo il perimetro esterno della struttura. «Non riusciamo mai a beccare i responsabili all’opera: è pieno di sentinelle. Però lo sapete anche voi: c’è un campo rom a cinquanta metri... E pensate che proprio loro, quando interveniamo, si lamentano di questi roghi: “Non è possibile”, ci dicono...», racconta l’addetto in servizio.

 

 

 

È una fetta di città che gira al contrario questo vicolo chiuso. Sono 36 anni - era l’87 quando il campo rom fu aperto dal Comune di Milano - che le famiglie di sinti abruzzesi (un centinaio di persone) in città dagli anni ’60 fanno il bello e il cattivo tempo. Un microcosmo dove criminalità e degrado si fondono e si compattano. L’ultimo squillo di legalità risale al 3 giugno scorso, quando gli agenti del Nucleo problemi del territorio della Polizia Locale hanno fatto capolino nel villaggio per notificare sette arresti e tre misure di allontanamento dalla città per associazione a delinquere finalizzata al furto di auto, ricettazione e spaccio di droga (cocaina e hashish), con conseguente integrazione dell’ipotesi di reato di combustione illecita di rifiuti (componenti interne ed esterne dei veicoli e altri materiali di plastica e polistirolo). Una goccia in quell’oceano di illegalità che inonda il budello a fondo cieco di via Bonfadini. In attesa dei sigilli definitivi al campo, che tra i corridoi di Palazzo Marino si dice che arriveranno tra la fine di quest’anno e l’inizio del prossimo. Le galline, intanto, fanno la spola tra il loro recinto e la via d’accesso all’insediamento, attraverso l’area abbandonata un tempo sede del Centro di accoglienza temporanea di via Sacile. In una roulotte semi distrutta, adagiata in un angolo diventato discarica per materassi, lavatrici, brandelli di vestiti e immondizia, c’è una vaschetta di uva freschissima: è il segno che qualcuno, qui dentro, ci vive.

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