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Giuseppe Garibaldi, quante somiglianze con Benito Mussolini

Linguaggio spiccio, pochi compromessi, forte nazionalismo, numerosi amori: il parallelo tra la giubba rossa e la camicia nera

Giulio Bucchi
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di Gianluca Veneziani   Vestiva una giubba rossa, ma avrebbe fatto bene a indossare una camicia nera. Giuseppe Garibaldi, mito del Risorgimento italico, fu in realtà, sotto molti aspetti, un fascista ante litteram. È la tesi di Marcello Caroti che sul generale nizzardo ha scritto il bel saggio Garibaldi il primo fascista (youcanprint, pp. 186, euro 11,90), una lettura non revisionista, ma volutamente de-mitizzante del più popolare tra i nostri eroi. Basandosi su una mole consistente di fonti e sulle Memorie scritte dal patriota, Caroti svela le contraddizioni del personaggio, ammantato di un'aura epica spesso falsa, che lui stesso contribuì ad alimentare, aiutato da un naturale carisma, dalla compiacenza dei potenti e da una fortuna spudorata. Del «fascista», Garibaldi ebbe innanzitutto il ricorso a un frasario molto spiccio, sintetizzato in motti e slogan. Il «me ne frego» mussoliniano, avverte Caroti, ebbe origine proprio nei discorsi del combattente risorgimentale, avvezzo a non cercare compromessi, come dimostra il suo disprezzo verso i tiepidi e gli incerti, i «patteggianti alle idee di mezzo». O con noi o contro di noi, avrebbe sintetizzato il Duce. Oltre alle parole, di stampo pre-fascista furono anche i metodi di Garibaldi, il suo modo di agire, in battaglia soprattutto. Nei confronti dei nemici era propenso alle rappresaglie e verso i suoi facile, molto facile alla fucilazione. Caroti parla addirittura di «metodi nazisti», per indicare la maniera sbrigativa di liquidare gli avversari. A dar fondamento a questa sovrapposizione tra Garibaldi e i militi fascisti c'è poi una comunanza di valori, cui entrambi adeguarono il modo di vivere e combattere. Si pensi in primo luogo al «trionfo della volontà», per cui è sempre bene cimentarsi nell'impresa, aspirando alla vittoria. Così Garibaldi caricava i suoi prima di una battaglia: «Non isperate ne' vuoti simulacri, ma nella giustizia; non confidate che in voi. Chi vuole vincere, vince». Viene in mente il «Vincere e vinceremo» di memoria mussoliniana. Con la differenza, tuttavia, che quelle di Garibaldi sono le parole di un combattente che, almeno fino alla spedizione dei Mille, fu un grandissimo perdente. Un altro punto di contatto sta nel «culto del supremo sacrificio», tributo a chi in battaglia si spende col massimo della dedizione, fino a versare il sangue. «Mancò la fortuna, non il valore», avrebbero detto i fascisti. Rientra in questa idea anche il mito della bella morte da cercare nel combattimento («Chi per la patria muor/ vissuto è assai», cantavano i fratelli Bandiera) e il profondo discredito che Garibaldi nutriva verso i soldati che si arrendevano. A ciò si aggiunge un elemento che sarà parte integrante della retorica fascista, ossia il misticismo religioso, che si appropria di aspetti cristiani, declinandoli sull'idea nazionalistica. Come gli artefici del Ventennio, anche Garibaldi fu  un nazionalista convinto, che viveva l'amore per la patria come una missione sacra, una forma di ascetismo. Questa sua versione di «santo eroe» è tanto più paradossale se si considera il suo fiero e feroce anticlericalismo, che lo portava a considerare i preti scarafaggi da schiacciare; salvo poi riuscire, come farà anche Mussolini, ad accordarsi con la Chiesa, nel momento in cui gli servirà l'appoggio dei cattolici durante la conquista della Sicilia. Ecco la vicenda più oscura, secondo l'autore, della parabola di Garibaldi: la spedizione dei Mille. Molto più che nelle sue missioni sudamericane, proprio durante lo sbarco in Sicilia Garibaldi dovette scendere a patti con i criminali, sia tra i suoi soldati che tra i suoi sostenitori. Nell'esercito di giubbe rosse, arruolò infatti avanzi di galera, banditi, delinquenti; e per riuscire a debellare con un manipolo di uomini l'esercito borbonico, dovette accordarsi con i «maffiusi», gli uomini d'onore che in quegli anni cominciavano a spadroneggiare nell'isola. Senza il loro appoggio, che presto anche Crispi avrebbe cercato, Garibaldi, il generale della malavita, non sarebbe mai riuscito a sbarcare nel «Continente». Caroti va oltre; sostiene, supportato da documenti, che l'azione garibaldina nel Sud Italia sarebbe stata impossibile se non ci fosse stato il sostegno della Massoneria sia negli ambiti internazionali (come dimostra l'incomprensibile aiuto dato dall'Inghilterra alla spedizione) sia tra gli stessi ufficiali borbonici, che vedevano in Garibaldi non un nemico ma un affiliato alla stessa setta. Questo quadro, che dipinge un Garibaldi proto-fascista, massone e colluso con la mafia, è sufficiente a de-mitizzare la leggenda del combattente generoso. Forse l'unico aspetto che Caroti, volutamente, non demistifica è la vita privata di Garibaldi, ovvero la sua fama di insaziabile amatore. Le dicerie, in questo caso, sembrano tutte vere. Garibaldi era uno che non andava tanto per il sottile con le donne. «Lui le prendeva tutte, belle o brutte, aristocratiche o popolane, ricche o povere, nubili o sposate». Normale per un generale in guerra: per lui, ogni buco era trincea.   

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