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Vittorio Feltri, il ricordo di Gianni Brera: "Il migliore. Quella lite da cui nacque la nostra amicizia"

Davide Locano
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Ho avuto a che fare con Gianni Brera, del quale si celebra il centenario della nascita, quattro anni prima di conoscerlo di persona. Eravamo partiti male, duellammo a lungo per iscritto tirando di fioretto, poi di spada e di clava, avendo entrambi un carattere poco incline a cedere su quel che si crede e si scrive. Ma per me, che sono un appassionato di scherma e già al tempo avevo sviluppato un' intolleranza esantematica nei confronti dei numerosi cretini che affollano il nostro mestiere e non si astengono dall' avere opinioni, litigare con Brera era una cerimonia di nozze, e anche lui credo che si sia divertito, visto com' è andata a finire la nostra giostra. Andò così. Nel 1988 venni inviato dal Corriere della Sera a Seul, in Corea. Avevo il compito di seguire, per mia fortuna, non le gare, ma i contorni, i costumi, ogni giorno sceglievo il circondario di un evento e lo raccontavo (per inciso, mi salvai per miracolo da quell' esperienza, un giorno presi l' autobus per raggiungere uno stadio, e il mezzo, con me sopra, passò per un ponte malfermo che battezzai subito, con una certa preoccupazione: questo viene giù. Io quel dì me la cavai, però poco dopo essere rientrato a Milano lessi la notizia che il ponte aveva ceduto sotto il peso della medesima corriera, morirono in quaranta). Leggi anche: Vittorio Feltri, la commozione per il video del pompiere che salva il gattino LA LITE Insomma, ero a Seul quando da via Solferino mi informarono che Brera, al tempo era a Repubblica, aveva scritto un editoriale in cui auspicava che Milano venisse eletta come sede delle successive Olimpiadi disponibili, nel 2000. Secondo lui la città era attrezzata adeguatamente per ospitare l' evento-mostro dello sport mondiale. La qual cosa non era vera, per cui io ero di diverso avviso, e lo ero di prima mano, perché in Corea scandagliavo quotidianamente quanto fossero complessi i meandri organizzativi, numerose e impegnative le strutture necessarie, ingente la profusione di energia, di personale e di denaro per sostenere l' impatto dei Giochi. Il capoluogo lombardo, infatti, non aveva nulla, non un palazzetto, crollato sotto una formidabile nevicata tre inverni prima, non una pista di atletica, non una piscina olimpionica, non un posto per le gare di tuffi. L' Idroscalo era poco più che brullo. Invitato dal Corriere a commentare la sparata di Brera, scrissi le mie osservazioni, con parole un tantino colorite, cioè che per sostenere la candidatura di Milano bisognava essere fuori di testa. Brera non apprezzò. Rispose nota su nota, mi diede del cretino. Ci replicammo addosso finché, in calce a uno dei miei elenchi di manchevolezze dell' ipotetica Milano olimpica, scrissi: «Caro Brera, stavolta hai toccato il fondo. Della bottiglia». Brera non lanciò più la sua ascia di guerra e la cosa sembrò finire lì. Invece questa vicenda generò due code. La prima è che l' allora sindaco meneghino, Paolo Pillitteri, che con Brera e Massimo Moratti avevano lanciato un comitato per promuovere "Milano 2000", mi provocò, invitandomi a testimoniare l' inizio e l' avanzamento dei lavori sulle infrastrutture. Pillitteri, come confessò anni dopo, non credeva che davvero mi sarei impuntato a verificare le sue (e di Brera) dichiarazioni. Mi diede buca per tre o quattro appuntamenti consecutivi, finché andai da solo a dare un' occhiata ai cantieri, che praticamente non c' erano, e scrissi un articolo durissimo al quale nessuno replicò. La seconda coda è la nascita della nostra amicizia, intendo con Brera. Dirigevo L' Indipendente, era il 1992, e in quei mesi io e la mia squadra di giornalisti stavamo facendo un giornale inedito, corsaro, beffardo e aggressivo, che in Italia non s' era visto ancora. A pranzo frequentavo un ristorantino, Da Roberto, in Corso Sempione, ma ero all' oscuro che fosse meta pure di Gianni. Un giorno, mentre parlo con il mio commensale, con la coda dell' occhio vedo Brera a un tavolo non lontano. Anche lui si accorge di me, per un po' entrambi decidiamo di ignorarci. A un certo punto un cameriere arriva con una bottiglia di Grignolino insieme con un biglietto: «Auguro anche a lei di arrivare al fondo della bottiglia». Alzo la testa e vedo la sua mano che con un ampio gesto ci invita al suo tavolo. Così scoprii l' altro lato di Gianni Brera, quello che i suoi amici conoscevano, quello che originava la sua prosa pirotecnica. Cioè l' atteggiamento nei confronti della vita. La sua compagnia era perfino più piacevole della sua scrittura. Ma avvicinarsi a Brera, almeno questa è stata la mia esperienza, era come esser tirati dentro una tromba d' aria, il suo tipico ventaccio di parole si alzava dalla combinazione di tre diverse velocità: le parole colte e citazioniste, quelle popolari e quelle inventate. Parlare con lui (parlava sempre lui) era una specie di corrida in cui si mischiavano mondi, informazioni, aneddoti, stranezze, date storiche, alla verità delle quali a fine pasto nessuno sapeva se credere. Erano troppe, troppo dettagliate e si intersecavano con la precisione dei mattoncini Lego. La mia malfidenza, però, era poco lungimirante: spettinato dalle chiacchierate, dalla sua presenza imponente e da quella mole di racconti, una volta in redazione correvo alla Treccani (che tengo ancora in ufficio, bisunta e infallibile, sugli scaffali alle mie spalle, equivale a un altare cui rivolgermi ogni volta che ho un' incertezza) e andavo a verificare almeno alcuni dei suoi racconti. Non lo colsi mai in fallo, i fatti erano veri, le date erano ogni volta esatte. Aveva davvero una memoria enciclopedica. A Brera L' Indipendente piaceva, gli piaceva lo spirito monello di quel piccolo quotidiano esperimento, il profumo di novità. Una sera ci incontrammo a cena e mi portò uno scartafaccio che conteneva un bel po' di fogli. Erano sette racconti di varia umanità che non aveva mai pubblicato. Me li regalò. Io decisi di pubblicarli a dispense, un racconto alla settimana. Il giornale schizzò in su di settemila copie al giorno e non le perse mai. Gianni mi aveva fatto un regalo bellissimo, da vero generoso: mille volte si era vantato, a tavola, di non aver mai scritto gratis neppure le cartoline. La scrittura di Gianni Brera non era per tutti. Era per chi conosceva bene l' italiano, e fra i lettori dei fogli sportivi non è che i letterati abbiano mai pullulato. Il suo smisurato talento, che non è certo una scoperta, come non lo è la ricchezza smodata del suo vocabolario (ancora più smodata per la quantità di neologismi calcistici, che oggi son parte del lessico di tutti, melina, pretattica, contropiede, goleador, libero, incornare, disimpegnare, cursore, mille altre: chi le usa adesso, sa da dove vengono?), né la gittata delle sue iperboli, è stato un gesto magnanimo del destino nei confronti di questo mestiere, perché l' informazione sportiva non aveva mai avuto, né ha avuto più, dopo la sua morte, un manuale vivente da cui attingere un po' di conoscenza e di coraggio. L'ARCIMATTO Io, per esempio, nei miei primi anni di lavoro, ho potuto godere del magistero della sua pagina sul Guerin Sportivo - dove era approdato diciassettenne per seguire la serie C ed era diventato subito una delle penne migliori - una corposa rubrica chiamata L' Arcimatto, che divoravo. Non parlava di calcio, ma di quel che capitava, perfino di battute di caccia. Ma la sua sanguigna passione per la tavola, anzi una fame divoratrice di cibo e una sete inesauribile di Barbaresco, si applicava a ogni aspetto della vita. Non si tirava indietro, litigò e fece pace con Umberto Eco, fu amico e poi nemico di Giovanni Arpino, maltrattò duramente Pier Paolo Pasolini che lo aveva criticato. Nato nel 1919 a San Zenone del Po, in provincia di Pavia, è stato un contadino che ha arato non la terra, ma gli umori, i miti, la gran fiera della gente di pianura; è stato un calciatore mediocre, durante la guerra un paracadutista della Folgore per lo più dietro il banco dell' ufficio stampa della Divisione; ha attraversato il fascismo ed è diventato socialista, poi radicale (si candidò due volte, prima con gli uni, poi con gli altri), scrittore (della sua trilogia di romanzi pavesi, Il corpo della ragassa è il più celebre, perché diventò un film). Affermò di essere padano (prima di Bossi, del quale diceva che somigliasse al tenutario di un casino) di "riva e di golena, di sabbioni e di boschi". Mi raccontò che da ragazzino non aveva punto voglia di studiare, e che arrivò alla laurea in Scienze politiche solo grazie alla sorella maggiore, che lo tallonava e lo costringeva sui libri a suon di schiaffoni. Da parlatore qual era, gli piaceva lanciarsi in pronostici e altrettanto spesso li cannava, sulle previsioni dei risultati e delle carriere non era un grande meteorologo. Ma credo che per lui fossero un succedaneo più economico delle scommesse. E poi si divertivano tutti. Su Italia-Brasile al Mundial 1982 pensava che cinque gol verdeoro sarebbero finiti nel sacco di Zoff, di Mennea sentenziò che era troppo gracile per competere con i giganti della corsa, di Eddie Merckx predisse che non avrebbe vinto cose importanti perché mangiava pochi carboidrati. E tutto questo mischiando Leopardi, il latino, il dialetto lombardo, l' Inter e perfino il Genoa, che usava come copertura per non farsi uccellare ("uccellare", altro neologismo suo) dagli sfottitori dei nerazzurri. I SOPRANNOMI Quanto ai calciatori, se li girava tutti su un dito, e con la sua abilità nel dare soprannomi creò un vero Olimpo, così come i suoi racconti fecero di un banale campionato di calcio qualcosa di vicino a un poema epico, che veniva riscritto ogni domenica. Rivendicò, il 19 marzo 1982, di aver per primo costretto Repubblica a portare in prima pagina la foto di un giocatore, era Giancarlo Antognoni, da lui detto "l' abatone". Aveva ammirato Valentino Mazzola, che riteneva il manuale del centrocampista vivente, e per questo stava addosso a Gianni Rivera, che chiamava "abatino" perché spumeggiava di classe sebbene avesse una certa allergia per lo scontro fisico. Al contrario, Gigi Riva andava bene, Brera lo leggeva come un omaccione padano tutto sostanza. Ma quando, un giorno in cui si incontrarono, Rivera mostrò di poter bere vino quanto lui, Brera si ravvide e gli concesse un secondo battesimo, facendolo passare al grado di "episcopus". Chissà uno con un carattere così, e ancora di più con una penna così, che non scendeva a patti con l' alfabeto e costringeva i lettori a elevarsi nella lettura, oggi che fine farebbe. Io sono stato uno di quelli "costretti", e sono felice di aver subito il magistero del miglior giornalista sportivo italiano, che a mio avviso rivaleggiò in bravura assoluta con Indro Montanelli. Tanto che allorché Brera morì all' improvviso la notizia mi arrivò come un pugno, e soffrii come si soffre per un amico ma anche, egoisticamente, forse di più perché mi era stato portato via un punto di riferimento. Ancora una cosa, mi devo correggere: Brera non scriveva a penna, se non gli appunti. Usava invece una Olivetti Lettera 62 rossa che maltrattava incessantemente, vergando decine di pagine senza fermarsi. Disse una volta di avere il menisco dei dattilografi, «mi fa male la seconda falange dell' indice destro dopo la decima cartella». In anni in cui il menisco causava la fine delle carriere, Brera viceversa scriveva cose così: «Bini ha aperto con molta eleganza ad Einstein Bertini sulla sinistra. Einstein ha incominciato a far uncinetto con i suoi piedi balzanti e sbirolenti: si è autolanciato sull' estrema sinistra ed ha crossato in corsa un meraviglioso pallone-gol per Boninsegna». Oggi scriveremmo che Bini ha servito Bertini, il quale si è liberato cambiando passo fino alla linea di fondo e l' ha messa in mezzo dove c' era Boninsegna. Chissà se qualcuno noterebbe la differenza. di Vittorio Feltri

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