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Addio Arbasino, sagace nemico del politicamente corretto

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Francesco Specchia
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«In Italia c’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di bella promessa a quella di solito stronzo. Soltanto a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di venerato maestro». A seguire la sua teoria sugli arabeschi del successo, Alberto Arbasino, di quella stessa teoria, è stato felice eccezione. E’ l’unico ad esser passato, negli anni, dalla condizione di brillante promessa a quella di venerato maestro, mantenendo però l’allure dello stronzo. Intendo, nell’eccezione letteraria che ne davano Sir Noël Coward, e Truman Capote, suoi sodali a distanza per stile e penna aguzza. Arbasino era “stronzo”, nel senso pregiato, di fucina d’arte.

Arbasino, che oggi, a 90 anni, ha “serenamente” -fa sapere la famiglia- lasciato questa valle di lacrime, sapeva essere stronzo con lo charme di chi rigettava il conformismo italiano raccontando e duellando con italiani migliori della media. Mario Pannunzio, Carlo Emilio Gadda, i ragazzi del Gruppo 63 (di cui fu, in fondo, uno dei fondatori), Alberto Moravia e Giorgio De Chirico, Giovanni Testori, “il sottovalutato” e Pier Paolo Pasolini, e Luchino Visconti che era “uno che ideologicamente pendeva per il proletariato, detestava la classe media e respirava circondato dallo sfarzo. Un signorotto di geniale talento…”: ogni autore pregiato, ogni padre fondatore, ogni respiro di genio era passato dalle parti di quest’intellettuale di Voghera in grado di essere magistrale in ogni attività volesse carezzare. Arbasino era giornalista, scrittore, pittore, critico teatrale e cinematografico, poeta per adulti e favolista per bambini. Arbasino te lo ricordi giovanotto con i baffoni che intervista Borges; o, très chic, nei salotti con Giovanni Agnelli il cui mondo tra broccati ed erre mosce fu preludio ad altri  92 Ritratti italiani per Adelphi; o vagabondo nelle notti romane della Dolce Vita (“nato a Voghera nel 1930, rinato a Roma nel 1957”, scriva di sé); o preso da militanza culturale nelle notti parigine della contestazione, tra caffè, musei, presentazioni di libri e rivoluzioni da camera, magari in compagnia di mostri sacri della cultura, da Céline a Jean Cocteau, da Raymond Aron a Raymond Queneau, e poi Pierre Klossowski, Alain Robbe-Grillet, Roland Barthes a cui l’aguzzo Alberto sapeva strappar sorrisi e confessioni. Gli esegeti più tignosi lo rammentano, nell’83, anche deputato del Partito Repubblicano arruolato direttamente da Spadolini e Visentini: un’esperienza orchitica archiviata come vezzo civistico.

Visto così, con l’occhio superficiale di un lettore di sinistra, Arbasino -per anni firma impenitente di Repubblica dopo l’esordio sul Giorno e poi sul Corriere della sera- potrebbe sembrare un neoavanguardista uscito dalla scuola di Sartre, tutto impegno, filosofia, e sopracciglia inarcate. E lo era. Ma non era solo questo. In realtà, Arbasino fu un solido giurista laureatosi a Pavia, alla scuola di Roberto Ago di cui divenne ben presto assistente. Poi scrittore esordiente -Le piccole vacanze, L’anonimo lombardo, anno 1957- ebbe come editor il feroce Italo Calvino. Nell’estate 1959 passò alcune settimane a Harvard grazie a una borsa della Political Section. Entrato nel giro del Mondo di Pannunzio, uscì su quella storica testata, a puntate, col romanzo La bella di Lodi che l’anno successivo verrà adattato per il cinema insieme a Mario Missiroli. Nel maggio 1963 pubblicò per Feltrinelli Fratelli d’Italia, ossia l’apoteosi della sua scrittura, un capolavoro che narra le vicende estive on the road di due giovani omosessuali, Antonio e l’Elefante, che d’estate girano l’Europa dipingendo uno spaccato, eguagliato solo forse dai film di Risi e Monicelli, dell’Italia anni ’60. Fratelli d’Italia è il romanzo-fiume con cui Arbasino -come scrive il suo più fedele discepolo Roberto D’Agostino- “ha soffritto il nostro Paese, i tempi, i costumi, le manie, i i tic e gli chic, i vizi e i gusti della bella e brutta gente e di quella così così. Seduto tra Giovenale e Marziale, ironico nella molteplicità del gioco linguistico, lo scrittore di Voghera è l’ultimo dei satiri, prima delle omogeneizzazioni a livello scadente e demente. Per l’erudizione vertiginosa, il carattere sarcastico, la lotta contro la cialtroneria in qualunque sede e aspetto”; e meglio non lo si poteva descrivere.

Tra le sue molte opere da ricordare: Parigi o cara; Un Paese senza; Paesaggi italiani con zombi; La vita bassa, che fin dai titoli hanno il suo tratto. Il suo amore irrefrenabile per Gadda e il suo mondo lo portò a vergare L’ingegnere in blu (Adelphi, 2008). Arbasino inventò intere espressioni dense d’ironia entrate nell’immaginario come la “gita a Chiasso” o “la casalinga di Voghera”, la cui genesi era allegramente dibattuta con quell’altro geniaccio di Beniamino Placido. Per pescarne perle tra i molti ricordi consiglio un’intervista a Malcom Pagani sul Fatto Quotidiano. Dove Arbasino smontava il mito di Michelangelo Antonioni, la suscettibilità di Visconti, o la pochezza degli anni 70, cari a molti suoi lettori: “Si viveva sulla retorica del ’68 rapidamente diventata una retorica tremenda. A San Francisco c’erano i figli dei fiori, in Europa gli assassini”. Mancherà, paradossalmente, più alla destra intelligente che alla gauche dal sopracciglio inarcato…

 

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