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Antonio Di Pietro e Mani Pulite, la verità di Titti Parenti: "Tangentopoli, inchiesta politica. Indagavo a sinistra, mi dicevano 'Quella deve tacere'"

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Esiste una frase di Aristotele che, da sempre, è riferimento del mio vivere: "I giovani non sono sospettosi, perché di male non ne hanno ancora visto molto. Sono fiduciosi, perché non hanno avuto ancora il tempo di essere ingannati". In sostanza i comportamenti tra i giovani, non avendo questi ancora vissuto alcun inganno, sono inclini alla fiducia, ma il tempo e le relazioni lentamente li fanno travalicare verso un'atteggiamento più realista e, forse, meno ideale. Così molti giovani si avvicinano e cercano di entrare in magistratura, non con l'idea di giudicare ma semplicemente con l'ideale di Giustizia in un afflato intenso e generoso.

 

 

 

 

 

Spesso, purtroppo , così poi non è. Un esempio è Tiziana Parenti, ex magistrato e oggi avvocato, che con spirito ideale decise da giovane di entrare in magistratura, con il convincimento che quell'ordine virtuoso che dovrebbe regolare i rapporti umani e che si chiama giustizia, fosse l'espressione più alta e giusta della società. Ma anche lei, il giudice della "pista rossa "di Mani Pulite, colei che fu incaricata di seguire il filone comunista e pidiessino dell'inchiesta, la grande accusatrice di Primo Greganti e dei vertici di Botteghe Oscure, oltre che protagonista di un fragoroso scontro con il procuratore aggiunto Gerardo D'Ambrosio, venne attaccata proprio da quell'ordine di cui aveva scelto di far parte, decidendo così di uscire dalla magistratura. «La libertà è sempre stata la condizione su cui non sono mai scesa a compromessi. Appena ho percepito che non avrei potuto essere autonoma e libera nel portare avanti le indagini, decisi di andarmene dalla procura e dalla magistratura».

 

 

 




 

Lei credeva, da giovane, nella Giustizia?
«C'è da fare una premessa: oggi la Giustizia non è un ordine, ma un potere. Quando un ordine ha la possibilità e la capacità di prendersi la vita degli altri senza doverne rispondere sotto un profilo di concreta responsabilità, diventa un potere quasi assoluto».
E cosa servirebbe perché la Giustizia non resti soltanto "un potere"ma torni a essere "un ordine virtuoso"?
«Innanzi tutto, sarebbe necessario fornire ai giovani che si apprestano ad entrare in magistratura, anche mediante studi interdisciplinari, strumenti idonei a formare in loro quel giusto distacco e autocritica nei confronti dei propri coinvolgimenti personali e istituzionali. Un aspetto, questo, che non viene minimamente insegnato nei corsi preparatori all'ingresso in magistratura, e tanto meno nei corsi di aggiornamento».
Erano quelli gli anni di Mani Pulite, e la sua indagine sulla pista "rossa" delle tangenti fu in quel modo fermata. Chi aveva contro? 
«Venni attaccata pressoché da tutti e capii che non potevo stare più in quel posto. Ciò che sentivo dire era "questa bisogna farla tacere"e, mi creda, questa frase mi impediva di andare avanti nel mio lavoro di magistrato».
Che tipo di operazione fu Mani pulite nel 1994? 
«Un'operazione politica, parziale, in cui si è venuta a costituire una vera e propria monade, la magistratura, e si sono resi evidenti alcuni cortocircuiti».
Mi può spiegare?
«Che Mani Pulite sia stata più che altro un'operazione politica è un dato certo. Il fatto è che si indagò in una sola direzione: io ne sono stata una chiara dimostrazione, infatti venni allontanata. Inoltre credo sia ormai emerso che ci furono probabilmente dei contatti di qualcuno del pool milanese con gli Stati Uniti. Anni fa in un'intervista Peter Semler, ex console americano a Milano, li ricorda: "Parlai con Di Pietro, lo incontrai nel suo ufficio, mi disse su cosa stava lavorando prima che l'inchiesta sulla corruzione divenisse cosa pubblica. Mi disse che vi sarebbero stati degli arresti. Ci vedemmo alla fine del 1991, credo in novembre..."».
E per quanto riguarda la Russia e il Pci? 
«La Russia ha sempre pagato qualcuno. Grosse tangenti, soldi. E non solo al Pci. Già negli anni Sessanta numerose cooperative facevano scambi culturali o import-export di facciata con l'Urss, tutti modi per giustificare in maniera lecita un finanziamento importante».
Lei ha parlato della magistratura come monade e di un cortocircuito che si è cristallizzato dopo Tangentopoli.
«Il corto circuito è tra informazione e i palazzi di giustizia. I giornalisti di cronaca giudiziaria, e più ancora quelli delle testate "amiche", ricevono le così dette "veline" dalle procure, e questo non è un bene, mi creda; a volte sentivo addirittura i giornalisti che si lamentavano di non aver avuto le notizie e che invece erano state date ai loro colleghi che avevano una corsia preferenziale. Per quanto riguarda quella che io chiamo "monade", nel momento in cui non esiste la responsabilità civile dei magistrati, questi rimangono impuniti ed inattaccabili. Questa monade si è staccata dall'architettura costituzionale ed oramai vive di vita propria. A volte poi implode, perché ha bisogno del nemico».
Cosa pensa del caso Palamara?
«Credo che se viene usato il sistema Trojan per intercettare esponenti delle istituzioni e anche un magistrato, c'è qualche cosa che non funziona».
Lei, dopo la magistratura, è entrata in politica. Che esperienza è stata?
«Positiva, in quanto ho potuto osservare la società da un punto di vista diverso, istituzionale, e questa cosa mi ha dato tanto. Ho sempre avuto un rapporto molto sincero con Silvio Berlusconi, e a lui, una volta fallita la famosa bicamerale che avrebbe dovuto occuparsi della riforma della Costituzione e quindi anche della magistratura, ho detto che in quel momento era finito tutto».
Durante Mani Pulite lei ha avuto rapporti con tutti i protagonisti del pool di Milano. Cosa ricorda?
«Gerardo D'Ambrosio ci credeva, nella sua "missione", e lo manifestava apertamente; era un uomo che non portava rancore, ma sapeva che doveva vincere sul potere. D'Ambrosio è sempre stato un uomo di sinistra e ci siamo ritrovati in Parlamento. Saverio Borrelli negli anni Ottanta era molto amato dai suoi sostituti, perché sapeva conciliare e mediare. Poi è diventato diverso, mi è parso cambiato; credo che un po' temesse e subisse Di Pietro».
E Di Pietro?
«Preferisco tacere ,perché non ho voglia di avere altre querele...».
Ma lei però è stata sempre assolta dalle denunce che le sono state fatte.
«Certamente, sono stata assolta dal tribunale di Brescia; poi dalla Camera, in quanto onorevole, non è stata data l'autorizzazione a procedere nei miei confronti. Successivamente è stato sollevato il conflitto di attribuzione alla Corte Costituzionale, che a sua volta ha dichiarato l'improcedibilità nei miei confronti. E per inciso, non ho mai accettato per le mie dichiarazioni alcuna transazione finanziaria, con Di Pietro o altri del pool».
E quindi perché temere...
«Semplicemente perché non ho voglia, come già fatto, di dedicare altri quattordici anni della mia vita alla mia difesa».
Secondo lei che cosa è diventata oggi la magistratura?
«Purtroppo si è burocratizzata ed è diventata potente ma ottusa. È la burocrazia che vince sulla politica».
Ma politica e giustizia devono essere due poteri separati?
«Premettiamo che la magistratura è un soggetto politico. Quando sessanta milioni di italiani ti chiedono di garantire i loro diritti, sei di fatto un soggetto politico. Senza considerare che i contatti tra politici e i vertici della magistratura esistono da sempre. Quando ci sono entrata io, nel 1980, c'erano già da anni. La cosa non ci deve meravigliare. Il vicepresidente del Csm è eletto dal Parlamento e i magistrati sono ovunque, dai gabinetti dei ministri al Parlamento, nelle diverse istituzioni».
E quindi che fare?
«Non scandalizzarsi e rendere trasparenti quei rapporti tra politica e giustizia che esistono e continueranno ad esistere. Fermo restando l'urgenza di rafforzare, mediante norme anche di carattere costituzionale, il principio fondante una democrazia liberale qual è quello della separazione dei poteri, così che la magistratura sia indipendente né di più né di meno degli altri poteri dello Stato».

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