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Giuseppe Conte, la parabola dell'avvocato che sognava il nuovo Ulivo: ora è rimasto solo

 Conte con Grillo

Aveva piazzato i suoi feelissimi nei gangli del potere e puntava a mettersi alla guida del centrosinistra. Draghi gli ha scombinato i piani. Ora resta con un pugno di parlamentari

Francesco Specchia
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Ma quante divisioni ha Giuseppe Conte?...». La domanda – come quella che Stalin incorniciò a Yalta sul Papa - rimbomba oggi nei Palazzi, dal Nazareno al corridoio dei passi perduti, proprio mentre l’Eisenhower di Volturara Appula annuncia: «Se Grillo non è d’accordo mi ritiro, senza fare partiti». Cercando di anticipare lo stesso Garante del Movimento il quale, agguerrito, scende a Roma per incasinargli la rivoluzione e strattonare per la collottola ogni eletto pentastellato.

Ma forse, più che al generale Ike Eisenhower, Conte oggi somiglia al Colonnello Kurtz di Apocalypse Now. Disarmato, immerso nell’ombra dell’inquietudine, esule in un mondo non più suo, con le truppe in parte decimate in parte inghiottite dalla diserzione. Già, quante divisioni ha oggi Giuseppe Conte, il comandante senza esercito? Giusto i parlamentari che sperano nel terzo mandato, ma non certo la base in subbuglio. «Voglio che Grillo sia convinto di me», continua a ripetersi Conte, giurando di tornare a fare il professore, piuttosto che fondare quel fantomatico “partito del premier” accreditato da un 10-15% già volatile ai tempi in cui se ne stava ancorato a Palazzo Chigi, figurarsi oggi. D’altronde, il Movimento Cinque Stelle si presenta come la  Dresda sotto i bombardamenti del ’45. Del 33% di consensi che gli fece occupare le Camere un secolo fa, ora rimangono 36 espulsioni, 100 cambi di casacca, la fuga dei duri e puri della prim’ora e delle teste pensanti (da Lezzi a Morra, da Paragone a Carelli), il distacco doloroso da Rousseau, uno stallo epico che parte dalle amministrazioni di territorio e arriva in Parlamento. 

Escludendo i sondaggi in picchiata – alcuni, segretissimi, danno i grillini sotto il 10% - Conte è fuori da tutti i giochi: non ha incarichi istituzionali; non è stato nemmeno ufficialmente nominato leader; non è stato eletto e non può nemmeno attrarre eletti a sé, in quanto con essi non ha – come vogliono gli equilibri della politica - né rapporti di mutuo soccorso, né di cooptazione, né di riconoscenza. Conte non può neppure accreditarsi come l’anti-Draghi. Sia perché come standing internazionale, relazioni, competenza nei temi economici ci farebbe una figura cacina; sia perché dovesse rivendicare risultati superati dagli eventi (pure se, bisogna riconoscerlo, l’istruzione della pratica Recovery Fund spetta a lui e a Gualtieri), qualcuno gli aprirebbe sotto il naso dei capitoli imbarazzanti. Capitoli come, per dire, il rosso da 1,6 miliardi di euro denunciato dal generale Figliuolo, causato dalla gestione Arcuri fortemente voluta da Conte; o il durissimo giudizio del funzionari della Commissione Europea sul suo piano per il Next generation Eu, «quasi una presa in giro» per l’inconsistenza soprattutto inerente la striminzita paginetta dedicata a riforme definite epocali; o gli strombazzati annunci di rigore, serietà e cambiamento profusioni durante i mitici “Stati Generali” del Movimento di cui s’è persa la memoria.

Eppure, l’avvocato del popolo sopravvive ancora in strepitosa quanto misterica consapevolezza di sé. E, onestamente, non ha tutti i torti. Prima di lui soltanto Dini e Monti erano riusciti, da tecnici e superburocrati, a farsi issare a Palazzo Chigi e a rimanere in politica fino alla soglia della fondazione di un partito (pur non avendo un straccio di seguito elettorale). Ma soltanto Conte era riuscito, di sottecchi, mentre gli altri partiti litigavano sui posti da sottosegretario, a piazzare i suoi fedelissimi nei gangli stessi del potere, dai Servizi Segreti al Dag, il motore amministrativo dello Stato. Soltanto Giuseppi, attraverso consensi virtuali e sfruttando abilmente i media, era stato in grado di capitalizzare consensi, benchè guidando governi diametralmente opposti che smentivano sistematicamente se stessi. E lo scopo di Conte - come si fece scappare lo spin doctor Rocco Casalino - non era la rifondazione del M5S. Ma va’. Era, piuttosto, la creazione progressiva di una sorta di “secondo Ulivo” prodiano che avrebbe dovuto incorporare lo stesso M5S senza che il M5S se ne accorgesse. 

E nessuno creda alla favola dell’ansia da Cincinnato dell’ex premier. Il suo narcisismo politico ben occultato non l’ha mai ridestinato alle aule universitarie, semmai lo stava proiettando verso traguardi politicamente siderali per uno – come suggeriva qualcuno - con «l’astuzia plebea di un avvocaticchio delle Murge». Poi, però, è arrivato Draghi. E nello stesso Movimento hanno, alla fine, in parte realizzato che «si può ingannare tutti per un po’ e qualcuno per sempre, ma non si può ingannare tutti per sempre». Soprattutto se, tra quei «tutti», si staglia il fondatore Beppe Grillo il quale, uscito dalla trance, s’è avveduto che col cambio di statuto voluto da Conte, avrebbe perso la presa sulla sua stessa creatura. Scartava caramelle al cianuro, infatti, ieri l’ “Elevato”: «Conte è ottima persona ma il visionario sono io»; « Sono un garante non un coglione»; «Lui non sa cos’è veramente il Movimento... Non ha girato con noi nelle piazze», e altre amenità. 

Sicché, ora, siamo alle soglie di una guerra civile mascherata da vibrata dialettica «nel contesto pentastellato della democrazia diretta». Però, se a qualcuno – uno a caso, Letta - venisse in mente di contare le divisioni del comandante Conte, tante potrebbero essere le sorprese sotto il cielo cannoneggiato dai mortai…

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