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Papa Francesco, "quel film che guarda sempre": la confessione del fedelissimo del Pontefice, una "impensabile passione"

 Papa Francesco

Giovanni Terzi
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«Molte volte ho potuto ascoltare papa Francesco parlare di cinema, di quel cinema da lui conosciuto fin da bambino in Argentina grazie ai genitori che lo portavano spesso a vedere i film nella sala del suo quartiere a Buenos Aires. È lì che il Papa ha potuto conoscerei film del neorealismo italiano, da lui definiti in varie occasioni una "catechesi di umanità": un cinema che, come racconta lui stesso lo ha aiutato a comprendere in profondità il dramma della guerra, percepito fino ad allora nel continente latino-americano solo attraverso i racconti dei tanti immigrati che arrivavano dall'Europa. Il neorealismoè stato tra i fondamenti di una cultura cinematografica che Bergoglio ha poi coltivato e arricchito nel corso del tempo e di cui il suo magistero è nitida testimonianza: non sono rare, infatti, le occasioni in cui il Papa ha fatto riferimento a questo o quel film nell'ambito di discorsi e omelie e perfino nei grandi testi di magistero». Così Monsignor Dario Viganò inizia a raccontare la potenza del cinema neorealista italiano, vera e propria passione di Papa Francesco, perché capace di diventare uno sguardo autentico "aperto alla memoria, e protesto verso il futuro", ergendosi a bussola per il nostro tempo.

 

 

Una tesi, questa, declinata nell'ultimo libro scritto da monsignor Dario Edoardo Viganò, vice-cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze e della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali Lo sguardo: porta del cuore. Il neorealismo tra memoria e attualità -. che tra l'altro ospita un'intervista a Papa Francesco, il quale afferma «la forza testimoniale e documentale delle immagini e dei film, riconoscendo per alcuni di essi il loro valore universale e la loro capacità di interrogare il cuore dell'uomo». Don Viganò è immediato e semplice nel raccontare quelle che sono le distonie oggi presenti nel mondo, i pericoli post pandemici ed il ruolo che la settima arte, il cinema, ha nella vita contemporanea.

Don Dario come è nato il tuo rapporto con il cinema?
«Fu grazie a Cardinal Martini che mi mandò a fare la tesi di drammaturgia teorica ed in quel caso iniziai ad immergermi nel mondo della filmografia trovando un profondo legame tra l'esperienza della fede e la capacità di narrare e raccontare che ha il cinema, soprattutto quello neorealista. Il cinema è una grande scuola di narrazione capace di raccontare le marginalità in modo straordinario arrivando direttamente al cuore di un vissuto che altrimenti ci apparirebbe lontano».

In che modo questo cinema può insegnarci a guardare?
«Quello neorealista è uno sguardo che provoca la coscienza. I bambini ci guardano è un film del 1943 di Vittorio De Sica che amo citare spesso perché è molto bello e ricco di significati. In tanti film lo sguardo neorealista è stato lo sguardo dei bambini sul mondo: uno sguardo puro, capace di captare tutto, uno sguardo limpido attraverso il quale possiamo individuare subito e con nitidezza il bene e il male. Ricordo le parole del mio fratello Hieronymos, arcivescovo ortodosso di Atene e di tutta la Grecia, a proposito di una delle realtà più dure del nostro tempo: "Chi vede gli occhi dei bambini che incontriamo nei campi profughi è in grado di riconoscere immediatamente, nella sua interezza, la "bancarotta" dell'umanità". Nell'intervista fatta a Papa Bergoglio anch' egli parla dell'importanza che ha avuto nell'infanzia il cinema neorealista italiano».

 

 

Quali sono stati i film di Papa Francesco?
«Il Pontefice mi ha raccontato come, tra i dieci e i dodici anni, ha visto tutti i film con Anna Magnani e Aldo Fabrizi, tra cui Roma città aperta di Roberto Rossellini che ha amato molto. Sua Santità racconta come per i bambini in Argentina, quei film sono stati molto importanti, perché hanno fatto capire in profondità la grande tragedia della guerra mondiale. A Buenos Aires la guerra l'hanno conosciuta soprattutto attraverso i tanti migranti che sono arrivati: italiani, polacchi, tedeschi... I loro racconti ci hanno aperto gli occhi su un dramma che non conoscevano direttamente, ma è anche grazie al cinema che hanno acquisito una coscienza profonda dei suoi effetti».

Papa Francesco ama citare spesso Fellini, a quale film del maestro e più legato?
«Sicuramente La strada è il film che forse ha amato di più e l'ha raccontato proprio nella mia intervista. Sua Santità si identifica molto in quel film, in cui si trova un implicito riferimento a San Francesco. Fellini ha saputo donare una luce inedita allo sguardo sugli ultimi. In quel film, infatti, il racconto sugli ultimi è esemplare ed è un invito a preservare il loro prezioso sguardo sulla realtà. Penso alle parole che il Matto rivolge a Gelsomina: "Tu sassolino, hai un senso in questa vita". È un discorso profondamente intriso di richiami evangelici. Ma penso a tutto il percorso di Gelsomina: con la sua umiltà, con il suo sguardo pienamente limpido, riesce ad ammorbidire il cuore duro di un uomo che aveva dimenticato come si piange. Questo sguardo puro degli ultimi è capace di seminare vita nei terreni più aridi. È uno sguardo di speranza, che sa intuire la luce nel buio».

Il Covid ha spento le sale cinematografiche ed enfatizzato il ruolo dei film e delle serie televisive. Cosa ne pensa?
«Il cinema è una esperienza di comunità che, oggi come oggi, manca totalmente».

Ed invece il ruolo assunto dai social e da internet?
«Sono uno strumento straordinario ma adesso c'è bisogno di tornare a conversare. Si deve ripartire dalle scuole in presenza dalle università e ridare quella socialità che è stata perduta».

 

 

Papa Francesco che rapporto ha con il cinema ed i mezzi di comunicazione?
«Credo possa meglio intuirsi guardando anche alle esperienze che lo hanno coinvolto in prima persona. L'esperienza del film diretto da Wim Wenders Papa Francesco. Un uomo di parola (2018) - un film che e il Papa ha voluto citare più volte anche nell'enciclica Fratelli tutti (ai nn. 48-203-281) è maturata dopo le numerose richieste per produrre documentari che lo vedessero protagonista: i decisi dinieghi che il Papa opponeva a ogni richiesta mi convinsero che occorresse proporgli una soluzione che rispettasse il suo stile di comunicazione, e, in fondo, anche la sua idea di cinema. Wenders è stato poi il perfetto interprete di questo stile e di questa idea: non un film freddamente celebrativo che inopportunamente ne esaltasse il protagonismo, al contrario, un film in grado di restituire la cifra della sua personalità: quella sua capacità di accorciare immediatamente le distanze, di stabilire una relazione intima e personale con ogni suo interlocutore, di comunicare la sua visione della Chiesa e del mondo riuscendo a parlare cuore a cuore, occhi negli occhi».

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