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Alessandra Ghisleri: "Il partito di Mario Draghi? Fallirebbe. Salvini e Meloni, occhio: il centro serve anche a voi"

Fausto Carioti
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Gli elettori italiani sono cambiati. Li hanno resi diversi il Covid e la crisi economica. Ed è arrivato Mario Draghi, che ha alzato l'asticella delle aspettative. Se vogliono avere un futuro, anche i partiti e i loro leader devono cambiare. Vale per tutti, per il centrodestra ed i suoi nuovi giovani leader, per il "nuovo" centrosinistra allargato e per tutti coloro che sono in cerca di un posizionamento. Lo spiega Alessandra Ghisleri, direttrice di Euromedia Research, che da vent' anni, ogni giorno, tasta il polso dei nostri connazionali. Le sue indagini iniziano spesso in cucina, il luogo in cui le famiglie si ritrovano, parlano e decidono come votare.

Quali sentimenti e preoccupazioni emergono in quelle conversazioni, dottoressa Ghisleri?
«Il sentimento principale che registriamo oggi nelle nostre interviste è il desiderio di un nuovo benessere: da conquistare, da migliorare, da ritrovare. Gli italiani aspirano a tornare ad una situazione che possa essere la migliore possibile, dal punto di vista sanitario e soprattutto economico. Le loro ansie più significative sono proiettate sull'aumento del costo della vita, a partire dalle bollette e dal costo dell'energia per arrivare ai beni primari: la pasta, il pane, l'acqua, il latte...».

Quale leader riesce a dare la risposta migliore?
«Mi sta chiedendo di parlare di Draghi il "SuperMario"? Più che i fatti, in questa fase contano le aspettative. E Draghi, oggi, ne è il garante».

Garante di cosa?
«Del nostro debito pubblico e del nostro mondo produttivo, intanto. Ma soprattutto, in un momento in cui i politici sono accusati di non saper guardare al lungo termine, per la maggioranza dell'opinione pubblica lui rappresenta la prospettiva internazionale, in particolare quella europea, che diventa prioritaria ora che anche Angela Merkel sta uscendo di scena».

L'italiano medio apprezza Draghi in quanto simbolo europeo?
«Intanto lo apprezza a livello nazionale. A livello internazionale gli riconosce l'autorevolezza e la capacità di sapersi far ascoltare in Europa e dai principali leader del mondo. Indicativa è la visita a Roma del presidente francese Emmanuel Macron per siglare un patto con il nostro governo. Per tali circostanze eravamo abituati alle visite dei nostri rappresentanti istituzionali all'estero. Anche questo è un dato che colpisce».

È trasversale questo atteggiamento nei confronti di Draghi?
«Sì, la fiducia in lui è politicamente trasversale e viaggia intorno al 55%. Tuttavia riscontra valori al di sotto della media nazionale tra gli elettori di Fratelli d'Italia, dove è vicina al 40%, ed è massima tra gli elettori dei partiti di governo: in quelli di Forza Italia oscilla tra il 74% e il 75%, nella Lega ha fiducia in Draghi il 68% degli elettori, nel Pd l'86,5%. Più complicato il suo rapporto con gli elettori dei Cinque Stelle, dove il 50% ha fiducia in lui».

Davanti a un Draghi così, cosa resta ai partiti?
«Dipende da loro. Il confronto con Draghi ha alzato le attese, ora gli elettori pretendono dai partiti persone competenti, capaci di dare risposte che non siano dei semplici slogan. Chiedono ai politici di formulare le loro proposte in maniera dettagliata, e quindi di illustrare "come" intendono abbassa re le tasse, "quando" intendo no farlo, "a chi" vogliono desti nare gli aiuti, e così via».

Siamo diventati un popolo di diffidenti.
«Diffidenti e sospettosi. Ci sono due parole, "mai" e "sempre", che - ad esempio - i politici non possono più usare: ogni qualvolta che gli italiani le hanno ascoltate, poi si sono sentiti traditi. Non potendo avere certezze in un momento difficile come questo, gli eletto ri chiedono almeno chiarezza su come certi impegni possa no essere realizzati».

Le coalizioni hanno ancora senso? Il centrodestra, nella percezione degli elettori esiste ancora?
«Ma certo che esiste. Però in una nuova configurazione. Berlusconi per più di 25 anni ci ha abituato a una struttura nella quale, se mi passa la cacofonia, il centro era al centro degli interessi. Oggi è un centrodestra differente, con i leader dei due movimenti con maggiore consenso, Lega e Fdi, che hanno la necessità di avvalersi di tutti gli insegnamenti che la Storia del nostro Paese ha da offrire».
 

Cosa devono capire, Salvini e Meloni?
«Che il nostro Paese ha sempre cercato il centro, la moderazione. Ogni volta che l'elettore si è trovato dinanzi a un bivio, ha scelto - in maggioranza - la strada che implicava le minori difficoltà, l'equilibrio più semplice. Sono anche questi i fattori a cui dovranno prestare attenzione Salvini e Meloni, se vorranno essere i leader di un centrodestra capace di rappresentare la maggioranza del Paese».

La figura del leader, di colui che impersona il partito o la coalizione, è sempre centrale?
«Lo è. Ma il leader che gli elettori riconoscono è colui o colei che riesce a far valere la propria visione arginando quei dissapori interni che minano l'unità dell'alleanza. Il confronto interno esiste in ogni coalizione e in ogni partito. Ed è altrettanto evidente che ogni leader desidera prevalere affermando il proprio primato».

Sono le bandierine piantate per compiacere gli elettori.
«Ma queste bandierine, come le chiama lei, se fini a se stesse, allontanano gli elettori, anziché accendere il loro interesse. Gli italiani sono stanchi di divaricazioni e litigi. Apprezzano chi è capace di trovare delle convergenze».

Il "nuovo Ulivo" di Enrico Letta è solo un'operazione di palazzo o può esserlo anche di popolo?
«Enrico Letta viene da una scuola politica influente, che insegna a unire i temi e le coscienze. Sta cercando, a fatica, di costruire un nuovo centrosinistra allargato. È evidente che l'aspetto più complicato di questo percorso riguarda la sua capacità di aggregare l'elettorato dei Cinque Stelle e di tutte le più piccole formazioni "costole" del Pd».

Di cosa hanno paura gli italiani rimasti fedeli al M5S?
«Vedono che non c'è più un'unica guida e che ciascuno dei dirigenti cerca di coinvolgere attorno a sé il maggior numero di voti. Oggi non possiamo parlare di mobilitazione di massa, ma di singoli gruppi che si costruiscono anche intorno a figure meno note, se li confrontiamo ai leader che il movimento ha avuto nel passato».

Ci sarebbe Giuseppe Conte.
«Conte è una figura importante. Pur avendo perso molto del suo personale consenso rispetto a quando era presidente del Consiglio, sul tavolo del gradimento se la gioca tuttora con i due leader che hanno il maggiore indice di fiducia: Salvini e Meloni. Tutti e tre rilevano valori attorno al 30%-34%».

Draghi non si candiderà, se non (forse) per il Quirinale. Al centro, però, c'è chi vuole costruire comunque il "partito di Draghi".
«Draghi è un politico fine e capace e per questo sa benissimo che non deve mischiare le carte della politica con il suo compito. Se lo facesse, si troverebbe limitato nell'azione. E senza la sua presenza un partito con il suo nome non avrebbe le credenziali».

Non funzionerebbe, insomma.
«No. Senza Draghi, il "partito di Draghi" non può avere alcun valore. Soggetto e oggetto devono per forza coincidere, per avere un minimo di appeal sull'elettorato. Come le dicevo, gli italiani sono diventati astuti: certi trucchi non funzionano più». 

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