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Vaccino, Giorgio Palù: "Le verità apodittiche dette per orientare la gente hanno fatto del male"

Pietro Senaldi
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Che con la pandemia si esaurisca anche il tempo dei tanti esperti a uso mediatico, tutti neovirologi, non riconosciuti tali dalla comunità scientifica. È la previsione del numero uno dei virologi italiani, Giorgio Palù, uno dei davvero «doc» che si vedono in televisione, anche se lui centellina le apparizioni «perché più voci parlano, maggiore è il disorientamento della cittadinanza, che poi incolpa i medici da talk-show di creare confusione». Il cruccio del presidente dell'Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa), già preside della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università di Padova, è che «una disciplina di così alto profilo scientifico, più di altre tributaria di premi Nobel, sia banalizzata e poco compresa per il suo alto impatto biomedico-sanitario. I virus sono i microbi più diffusi nella biosfera, ce ne sono a trilioni nel nostro intestino e in vari habitat del pianeta, anche tra i più remoti, ma di questi conosciamo ancora troppo poco».

Negli Stati Uniti parla solo Anthony Fauci, il consulente della Casa Bianca, in Germania Christian Drosten, il primo che isolò il virus della Sars in Europa, in Gran Bretagna il professor Patrick Wallace, portavoce del governo per l'epidemia, mentre da noi chiunque ha un camice ha la laurea ad honorem televisivo in virologia, che poi si estende ai più svariati campi della vita. Il «voglio spiegarvi il fascino della virologia» di Palù ha preso forma in due libri. Il primo, "Virosfera", scritto perla Nave di Teseo con il collega professore Massimo Clementi (altro virologo vero), è uscito l'anno scorso e si preoccupava di illustrare cosa fosse il mestiere. Il secondo, scritto come unico autore, uscirà il prossimo aprile e tratta prevalentemente dell'origine del virus, delle conquiste della virologia al tempo del Covid-19 e della lezione che l'epidemia ci ha consegnato per il futuro. Ed è una lettura fondamentale, non solo perché mette chiarezza nel mare delle imprecisioni e grossolanerie dette negli ultimi due anni, ma soprattutto in quanto, spiega Palù, «avremo altre pandemie, visto che stiamo alterando il pianeta e i suoi ecosistemi e violando nicchie ambientali dove gli animali selvatici vivevano in isolamento». Già, perché le epidemie ci arrivano dal mondo animale (zoonosi): l'Aids dallo scimpanzé, l'influenza suina del 2009 da anatre e maiali, Ebola, Hendra, Nipah, Sars, Mers e Covid-19 dal pipistrello. «Ci salva» spiega Palù «il fatto che il salto dall'animale all'uomo è rarissimo, ma capita...».

 

 

Quali lezioni ci ha dato l'epidemia, professore?
«La prima per il nostro Paese è la necessità di investire in ricerca di base e in ricerca e sviluppo industriale per approntare nuovi farmaci e vaccini come stanno facendo i nostri partner Europei. La seconda è l'importanza di riorganizzare l'assistenza territoriale. Bisogna ricominciare a curare in casa, soprattutto patologie ad alta trasmissività. Il Covid è stata anche un'epidemia nosocomiale, con positivi ricoverati che infettavano altri ospedalizzati e personale sanitario, con un contagio che dall'ospedale si trasferiva alla comunità».

È stato puntato il dito sulla carenza di medici...
«Sicuramente questa carenza c'è in alcune specializzazioni (pediatria, anestesia e rianimazione, radiologia, chirurgie...), ma l'Italia, con i suoi 42mila medici generici, uno ogni 1.400 abitanti, ha un rapporto medico/assistito identico a quello della Germania e solo di poco inferiore a quello della Francia. Come previsto anche dal PNRR, è necessaria una riorganizzazione delle funzioni dei medici generici e delle strutture della medicina territoriale oltre a una digitalizzazione della medicina in genere: fascicolo sanitario, analisi di big data relativi a parametri clinici ed epidemiologi, indicatori di consumo...».

Cosa dovremmo fare?
«Per prevenire la prossima, inevitabile, pandemia, bisogna investire in virologia evoluzionistica, quella che analizza come i virus animali si interfacciano all'uomo e all'ambiente e indaga su quali hanno potenziale pre-pandemico, possono cioè fare il salto di specie e infettarci. È meno improbabile di quanto si pensi, se si considerano le 3500 specie murine e di chirotteri presenti sul pianeta (tutti mammiferi) che hanno un genoma alquanto simile al nostro e che albergano milioni di virus ancora sconosciuti».

I no vax sono figli della cattiva informazione sul Covid?
«Studiosi di scienze cognitive attribuiscono il rifiuto vaccinale a una dissonanza cognitiva, un'incapacità ancestrale di valutare dove, tra malattia e prevenzione della medesima, stia il vero rischio. Molte distorsioni della verità, causa di pregiudizi (pregiudizi di conferma, di omissione...) hanno origine da una cattiva informazione, oggi incontrollabile in quanto viaggia nell'etere, che ha conseguentemente dato dignità anche alle cosiddette fake news. Non hanno fatto bene le verità apodittiche dette solo per tranquillizzare o per orientare la popolazione. Se si fosse ben spiegato, specie sui vaccini, che la scienza mette sempre in discussione i propri risultati e non arriva mai a principi assoluti, la gente non si sarebbe messa a cercare risposte su internet. Una ulteriore lezione della pandemia è sicuramente quella di affidare la comunicazione a fonti istituzionali e a giornalisti realmente esperti di biomedicina e sanità pubblica, che possono anche educare a interpretare il significato dell'enorme quantità di dati immessi in rete, una vera infodemia».

Parliamo dell'oggi professore: riapriamo tutto o meglio aspettare?
«Il contagio è in discesa da quattro settimane in tutti i Paesi della Ue e l'indice di trasmissione è sceso a 0,75. Le prospettive a breve termine sono buone, anche perché si va verso la bella stagione, che è nemica del virus. Nel Nord Europa hanno già tolto tutte le restrizioni, per non parlare della Gran Bretagna...».

E noi perché non riapriamo?
«Le terapie intensive sono occupate all'8,4% e i reparti generici al 18,5: dal punto di vista medico siamo sotto la soglia di rischio. L'età media dei contagiati è di 37 anni, ma quella dei ricoverati per virus è di 74 - 71 per le terapie intensive-, mentre quella dei decessi è di 83: di fatto muoiono quasi solo i soggetti più gracili e con più patologie concomitanti, per lo più non vaccinati, visto che in terapia intensiva la metà dei pazienti non è immunizzata, su una copertura della popolazione dell'86%. Quindi dal punto di vista sanitario si potrebbe gradualmente riaprire, ma la decisione che spetta alla responsabilità della politica».

Decisione politica allora: la sinistra è cresciuta nei consensi grazie all'epidemia e più essa dura, più ci guadagna?
«Questo lo dice lei, io non mi occupo di politica. Certo nel nostro emisfero è possibile attendersi una regressione del virus fino a ottobre, perché la variante Omicron si è diffusa molto rapidamente e spesso in modo asintomatico, e questo, associato alla profilassi di massa e al fattore clima favorevole, ci proteggerà per un po', perché sommiamo immunità artificiale da vaccino a immunità naturale da malattia».

E a ottobre, come andrà?
«Non è serio fare previsioni. È probabile che l'emergenza pandemica si esaurisca, visto che tutte le pandemie storicamente hanno una durata limitata nel tempo, ma non si può escludere che si perpetui con l'emergere di nuovi mutanti virali. Quello che sembra lo scenario più verisimile è che la pandemia diventi un'infezione endemica, come un'influenza stagionale, pericolosa soprattutto per anziani e malati».

Ci toccherà la quarta dose?
«La terza dose è stata fondamentale, perché ha dato una protezione del 90% dalla malattia grave e del 40-60% dall'infezione. Però la quarta dose oggi, se concepita per la popolazione generale appare poco utile come dimostra la recente esperienza sul campo di Israele».

Eppure da domani inizieremo a somministrarla...
«Ma solamente agli immuno-depressi...».

Quindi per gli altri non ha senso?
«Dal punto di vista immunologico ha poco senso nella popolazione generale, perché la quarta dose aumenta solo di poco la risposta anticorpale: le dosi troppo ravvicinate, d'altro canto, non attivano la memoria cellulare che combatte il virus e possono creare tolleranza ed anergia. Per gli immuno-depressi il discorso è diverso perché questi soggetti sono incapaci di una forte immunoreattività e quindi la somministrazione ripetuta può aumentare la risposta effettrice in senso lato e garantire la protezione. Bisogna però precisare che immunizzarsi con un vaccino come l'attuale disegnato sull'antigene S (la proteina di superficie) del prototipo di Whuan, un virus che circolava due anni e mezzo fa ma non circola più ora, ha poco senso biologico. La quarta dose dovrebbe essere aggiornata alle varianti in circolazione e includere determinanti antigenici altamente conservati».

 

 

Niente quarta dose allora?
«Mi pare saggio attendere; si valuterà il prossimo autunno; la quarta dose di vaccino andrebbe comunque somministrata con una versione aggiornata sulle varianti in circolazione, multivalente, o con una formulazione disegnata contro le proteine interne del virus, per esempio la nucleoproteina N. Se la pandemia si esaurirà questo potrebbe essere un vaccino stagionale come quello anti-influenzale».

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