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Barbara Gallavotti, "sono finita a lavorare con Piero Angela... per errore"

Pietro Senaldi
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«Volevo lavorare con Licia Colò, Alle falde del Kilimangiaro, ma il mio curriculum andò incontro a un'odissea negli uffici Rai e mi ritrovai a fare Ulisse, con Piero Angela. Cercavano autori. Io già avevo scritto libri, collaboravo con Galileo e tenevo una rubrica sull'Unità, ma il grande maestro mi sorprese: "Quale strumento musicale suona?" mi chiese».


Non hai sbagliato risposta, suppongo...
«Nella vita è anche questione di tasti. Io ho premuto quello giusto. Era il pianoforte e...».


Ed è partita la sinfonia...
«Anche nella comunicazione è questione di tasti, per fare passare il messaggio bisogna sapere quali toccare».

Sei una musicista mancata?
«Per niente, io ho sempre sognato di fare la giornalista. Mi sono laureata in Biologia, ma avevo considerato di iscrivermi a Lettere».


Perché, tu sei una giornalista? Ero certo che fossi una scienziata che sapeva parlare in modo chiaro...
«Per la verità lavoravo in un laboratorio di diagnosi prenatale. Un giorno è arrivata a fare un servizio una troupe di SuperQuark e ho scoperto che esistevano i giornalisti scientifici. Ho mollato tutto e iniziato la gavetta».

A cosa serve un giornalista scientifico, con schiere di luminari con la parete tappezzata di diplomi e attestati che pur di andare in tv rispondono al primo squillo?
«A fare chiarezza. Con i virologi in tv ci siamo trovati per la prima volta davanti a un congresso scientifico in diretta. Molti esperti o parlavano come se il pubblico fosse il loro abituale, di colleghi, partendo dal presupposto che ci fossero conoscenze condivise che non c'erano, oppure in maniera pedagogica. Ma informare non significa insegnare».

Hai sassolini nelle scarpe da levarti?
«Lo scienziato è fondamentale, è quello che fa le scoperte, ma resta un giocatore, deve credere nelle proprie ipotesi fino a prova contraria. Anche in buona fede, porta avanti la propria teoria con caparbietà, come si fa quando si vuole raggiungere un risultato».


Temo che la maggioranza dei camici bianchi dissenta dal tuo punto di vista...
«I politici accettano che siano i giornalisti a raccontare la politica, così come i calciatori lasciano che a raccontare le partite ci siamo noi. Il giornalista ha un approccio laico, non è immerso nel problema: ascolta le voci degli scienziati e comunica contestualizzando, è più adatto a integrare».


Ha un approccio laico, o dovrebbe averlo? Penso all'informazione ai tempi del Covid, tra partigianeria, ricerca degli ascolti e corsa alla notizia bomba, senza preoccuparsi troppo di verificarla...
«Travolti da una cosa che non conoscevamo noi giornalisti, come i medici, abbiamo cercato di fare il meglio per trovare informazioni giuste e comunicarle. Spesso abbiamo operato senza avere gli strumenti giusti».


Anche il giornalista però può essere partigiano, perfino di fronte al Covid...
«Potrei risponderti "Confini Invisibili". Questione di professionalità».


"Confini Invisibili" è l'ultimo libro di Barbara Gallavotti, professione giornalista scientifica, autrice per vent' anni di Ulisse e da sedici di SuperQuark nonché da due anni voce narrante della lotta al virus per Di Martedì. Ma non nell'arena; quando parla, lei ha spesso uno spazio tutto suo, inaccessibile perfino ai luminari. Il libro tira le fila su quanto successo dal dicembre 2019 a oggi. Dentro è documentato, spiega l'autrice, che «la pandemia ha prodotto un avanzamento scientifico straordinario,non solo nei vaccini, ma anche nella farmacologia: l'RNA è il futuro, esiste già una terapia a RNA per l'atrofia muscolare spinale. E l'RNA potrà diventare utile in terapie per tumori e patologie genetiche e la pallina di grassi che lo contiene e lo porta nelle cellule rappresenta un progresso fantastico. È come aver inventato una navicella spaziale che viaggia nel corpo, deposita la terapia e scompare senza restare nell'organismo». E fin qui siamo ai traguardi raggiunti dalla scienza. I progressi che però la Gallavotti sogna attengono alla comunicazione scientifica, e sono ancora lontani. Il pallino della collega è la realizzazione del concetto di cittadinanza scientifica, che dovrebbe essere lo scopo dei divulgatori come lei: «L'ambizione» spiega «è dare a tutti i cittadini gli strumenti culturali per compiere le scelte che coinvolgono scienza e tecnologia, come per esempio quella di vaccinarsi o no, o anche anche le decisioni energetiche, quelle sugli OGM, tutto quello sul quale in una democrazia ci interpellano anche come elettori».


Il governo ha dipinto chi non si è vaccinato per lo più come un anti-scientista fermo al medioevo...
«La politicizzazione del Covid e della profilassi è stata il vero fallimento dell'approccio all'epidemia. Posso capire che uno non si vaccini, ma è inaccettabile che lo faccia per convinzioni politiche, perché apprezza un leader piuttosto che un altro. Questo è il contrario della cittadinanza scientifica. I risultati scientifici non hanno orientamento politico».

Se credi nei vaccini, come fai ad accettare che qualcuno non si vaccini?
«Perché posso comprendere che uno abbia paura o abbia convinzioni etiche. Quello che vorrei non esistesse non è la libertà di scelta ma il dibattito su fake-news scientifiche, come c'è stato invece nel mondo. Io ti do le conoscenze reali e tu decidi secondo la tua coscienza, ma non sulla base di simpatie o informazioni destituite di ogni fondamento, come invece è successo».

Come si coniuga la cittadinanza scientifica con la democrazia?
«La cittadinanza scientifica, implicando informazione e consapevolezza, è alla base della democrazia. Il punto è che la democrazia è una mediazione tra diritti ed esigenze del singolo e della collettività. La scienza dà i risultati, ma i risultati non decidono, lo devono fare i politici, che possono limitare i diritti individuali se esiste un interesse superiore della collettività. Il singolo è libero di decidere cosa fare, in base alle conoscenze che il sistema gli ha dato, nei limiti sanciti da chi ha avuto democraticamente l'onere di decidere».


Spesso però gli scienziati hanno tesi opposte...
«Si, però la comunità scientifica dibatte e poi arriva a una posizione condivisa dagli specialisti. Bisogna fidarsi di quella, anche se talvolta capita che perfino delle eccellenze abbiano opinioni eterodosse».

La scienza come atto di fede nelle opinioni della maggioranza degli scienziati?
«In Gran Bretagna esiste un Science Media Center che aiuta gli operatori dell'informazione, seguendo il dibattito e fornendo contatti a cui rivolgersi. Questo aiuta chi fa informazione scientifica e chi deve poi decidere».


Il governo ha usato gli scienziati come scorciatoia per far passare le proprie decisioni senza informare adeguatamente...
«È stata una situazione di emergenza. Certo il dogmatismo instilla sfiducia. Uno dei problemi della comunicazione scientifica è nelle promesse: per ottenere consenso intorno alla ricerca, e a volte anche fondi, capita di far promesse alte, ma a volte le cose non vanno nel migliore dei modi. Il guaio è che poi la gente ti presenta il conto».

Ecco perché all'inizio è andato tutto bene, per citare il famoso slogan, e poi non è andato più bene nulla?
«Non è andata neppure male: in Italia si è completamente vaccinato quasi l'87% della popolazione e ora il virus è sotto controllo mentre in Cina, dove sembrava avessero capito tutto, sono punto e a capo, perché hanno cercato di seguire la strategia contagi zero, e non hanno vaccinato in modo adeguato la popolazione».

Cosa è andato male da noi?
«Trasformare la lotta al virus in lotta politica. L'incapacità di trovare una soluzione comune è stata catastrofica».

Colpa di chi?
«All'inizio, quando non si sapeva quasi nulla, la comunicazione politica è stata trasparente e la gente si è fidata. Poi si sono complicate le cose e si è badato al risultato, ma è diventato meno facile capire come ci si stava arrivando».


L'informazione ha dato ampio spazio ai propalatori di fake news che tu aborri...
«Quella però non è stata informazione scientifica. Nel Paese si è creata una frattura profonda, una realtà politica che l'informazione non poteva ignorare. Forse eccedere nella spettacolarizzazione del conflitto ha fatto male, ma l'alternativa era l'accusa di nascondere il dissenso».

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