Cerca
Cerca
+

Covid, contagi e morti: i numeri delle Poste, perché ha ragione Zangrillo

Lorenzo Mottola
  • a
  • a
  • a

Da quando un paio d'anni fa la parola Corona virus è entrata nel lessico comune, sui quotidiani di tutto il mondo hanno iniziato a comparire un'infinità di ricerche sulle categorie che sarebbero più o meno esposte al pericolo Covid. Qualche esempio: le donne se la cavano meglio. Sposarsi invece fa male alla salute. Chi beve vino in quantità ha maggiori chance di evitare le terapie intensive. E anche il consumo abituale di droghe psicotrope, secondo certi studi marcatamente naïf, potrebbe rappresentare un efficacissimo baluardo, salvo crepare per altri problemucci. Ora scopriamo che in Italia esiste un altro tipo di correlazione tra l'uomo e il virus: ogni professione parrebbe portar con sé un tasso di diffusione del Covid differente. E anche la mortalità varia a seconda di ciò che si fa per vivere. Probabilmente una spiegazione seria ci sarà, ma per ora non se ne trova traccia.

 

 


La questione emerge rileggendo i report che bimestralmente l'Inail pubblica sulle richieste di risarcimento. Domande che riguardano chi denuncia di essersi contagiato durante il proprio orario di lavoro (o anche recandosi in ufficio, in cantiere o dove si deve). E che presentano differenze abissali. Primo esempio: gli addetti alla ristorazione, in Italia sono circa un milione e 300mila, ma hanno presentato solo lo 0,7% delle domande. Gli addetti ai servizi postali, che sono quasi un decimo di meno, sono al 2%. Incrociando il dato dei decessi, poi, emerge un'altra curiosità: i postini sono più resistenti, nella classifica delle morti vanno all'1,4%. I ristoratori invece schizzano al 2,4%. La ragione non è chiarissima. Bizzarro anche il dato degli addetti ai trasporti: presentano solo l'1,4% delle domande di risarcimento, ma nel computo delle vittime da virus pesano per l'8,4%. Bidelli e portantini, al contrario, si ammalano spesso, ma finiscono poco in malattia: 5,8% di richieste di risarcimento, 3,2% di morti.


LE ABITUDINI
È abbastanza facile pensare che non tutte le categorie professionali affrontino allo stesso modo il virus. Ed è utile ricordare un altro dato: la media del periodo di malattia per chi bussa alle porte dell'Inail è circa un mese. Con omicron mediamente ci si negativizza dopo 5-7 giorni, stando alle indicazioni del ministero. Come sostengono tutti i virologi del pianeta - stranamente all'unisono - i contagi sotto traccia sono almeno cinque più di quelli dichiarati. Molti neanche denunciano la malattia, insomma. E non si tratta sempre di asintomatici. Al contrario, c'è chi invece prende la questione molto più sul serio. Ecco quindi spiegate le contestatissime parole del prof. Alberto Zangrillo: «Accade che lavativi seriali, positivi al test Covid19, non lavorino per settimane, sebbene asintomatici. Così si distrugge il Paese». E poi c'è la questione dei sintomi.

 

 


Proprio su quest' ultimo punto si gioca la polemica di cui si è spesso letto in questi giorni, che ha coinvolto anche Roberto Speranza e i suoi sottosegretari. La visione dei due vice del ministro, Costa e Sileri, sembrerebbe essere in contrasto con quella del leader di Leu. La regola per il momento prevede un isolamento di 7 giorni per i vaccinati e di 10 giorni per i non vaccinati. Poi si può uscire da casa con un tampone negativo. Virologi come Bassetti hanno una visione opposta: «Raccomandiamo loro certi comportamenti. Cambiamo la norma dei 7 giorni a casa se sei vaccinato e 10 se non lo sei. Diciamo alla gente di non uscire finché sono presenti sintomi. Poi possono riprendere a circolare indossando la mascherina». Ecco, forse il problema è che di queste regole già tanti ne hanno fatto polpette, girando anche in pieno Covid sintomatico. Mentre altri le seguono nella maniera più rigida possibile. Rimanendo in una comoda legalità. 

 

Dai blog