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Paolo Mieli spara la "bomba": "Vi dico perché questa legislatura è maledetta..."

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Francesca D'Angelo
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«L'ignoranza. È per quello se, fin da subito, mi sono dedicato ai programmi di Storia: per arginare il dilagare dell'ignoranza». E il bello è che Paolo Mieli ci riesce pure. Dopo Correva l'anno e La grande storia, anche il suo Passato e presente è diventato un cult: il programma va in onda dal lunedì al venerdì, alle 13.15 su Rai Tre e alle 20.30 in replica su Rai Storia, con una media di ascolti del 5% (buona per quella fascia) che non accenna a scendere. Persino adesso che ci sono le repliche. E dire che, contro, ha ben due edizioni del Tg: su Rai Uno e su Canale5. Il programma è stato quindi rinnovato seduta stante per l'autunno, rientrando tra i titoli più pregiati della Direzione Rai Cultura, e i primi di luglio si è portato a casa pure il Premio Flaiano come migliore programma tv.


Direi che la sua battaglia sta portando ottimi frutti.
«In realtà la vera chiave di volta è stato coinvolgere in Passato e presente i giovani laureati. Sono loro che fanno gran parte del programma. E dire che io, all'inizio, nemmeno li vole vo».

Come mai?
«Ogni volta che vedevo dei giovani in tv mi sembravano poco autentici, come se fossero stati imbeccati dai professori. La curatrice del programma Alessandra Disegna mi ha dovuto convincere e aveva ragione lei. Abbiamo chiesto agli Atenei di segnalarci i loro migliori laureati e devo dire che sono stati un'autentica sorpresa».


Temo però che, più che l'ignoranza, oggi bisogna combattere il negazionismo...
«In realtà, sono due "mali" imparentati tra loro. Il negazionismo nasce infatti da una conoscenza molto superficiale dei fatti ed è figlio di un'ideologia. Però, mi creda, è più facile combattere il negazionismo se il tuo interlocutore è a conoscenza dei fatti storici, che non con chi li ignora».

A proposito di negazionismo, dobbiamo parlare di propaganda russa. È giusto che la tv metta all'indice le voci filo putiniane?
«Onestamente, no. Tra l'altro insieme alla Germania, l'Italia è il Paese più filorusso che esista, anche se questa posizione viene abbastanza dissimulata. Come in passato il filo Hitlerismo prendeva migliaia di abiti, così oggi il filo putinismo è camuffato da pacifismo o da varie "ragioni della guerra"».

Quindi ha fatto bene Bianca Berlinguer a ospitare Orsini a #Cartabianca?
«Ma certo, e lo dice uno che ha idee diametralmente opposte! Trent' anni fa, con lo sbarco di Berlusconi e della Lega in politica, ci si è convinti che i dibattiti si potessero fare solo in condizioni di par condicio. In realtà quest' idea ammazza la tv. E poi i dati di ascolto vorranno pur dire qualcosa, no? Se la gente segue quei programmi vuol dire che ne trae una qualche utilità».

Promuove lo speciale di Giletti in Russia?
«Qualsiasi iniziativa giornalistica è utile, a meno che non si macchi di clamorose scorrettezze. Purtroppo serpeggia questa ansia di protagonismo, per cui sembra che il giornalista debba essere sempre lì a fare un combattimento. A volte lo puoi fare, altre no, ma quando accade non vuol dire che bisogna buttare tutto al macero. Prenda il caso Brindisi: la sua intervista a Sergej Lavrov è stata un pezzo eccellente. Direi quindi che nel complesso, anche se stanno prevalendo idee opposte alle mie, è stato un anno di discreta tv, sicuramente migliore delle precedenti».


Dice?
«Il fatto è che si tende a confondere la nostra parte militante con la valutazione complessiva dell'offerta di informazione. Bisogna invece accantonare la prima e non lamentarsi infantilmente di essere 2 contro 10... L'importante è avere argomenti: se li hai, puoi essere anche da solo contro tutti ma stai tranquillo che lascerai il segno. Infine, chi fa lo storico lo sa, non esistono argomentazioni tutte dalla parte del torto o tutte da quella della ragione. A volte il tuo interlocutore può avere una o più ragioni valide».

Non ha però l'impressione che nei talk l'analisi abbia ceduto il posto alle opinioni?
«Succede quando i dati sono pochi e quando i partecipanti hanno poca voglia di informarsi».

L'Ucraina può vincere la guerra?
«Bisogna intendersi sul significato di vittoria. L'Ucraina è un paese invaso quindi la sua vittoria consiste non nel colonizzare Mosca, ma nel ritiro dei soldati nemici dal suolo ucraino. In questo senso sì, potrebbe farcela. Magari ci mettono dieci anni, o venti, ma la spunteranno perché sono popoli dalla straordinaria resistenza».

Ma possiamo permetterci altri dieci o vent' anni di guerra?
«Sono loro che decidono e, le dirò di più, possono vincere anche a dispetto del mio o suo tradimento. Pensi che nel maggio del 1940 l'intera Europa Continentale (ripeto: l'intera, cioè tutti tranne l'Inghilterra!) si era arresa ed era giunta a un compromesso con Hitler. Cosa avrebbe pensato, se avesse vissuto in quell'anno? Che il mondo era spacciato.
Invece mai sottovalutare la capacità di resistenza di un popolo».

Com' è che alla fine ci incagliamo sempre nel conflitto America-Russia?
«In realtà è un'illusione ottica perché il vero conflitto del nuovo millennio è tra Stati Uniti e Cina. Quello con la Russia è un conflitto di retrovia, che nessuno si aspettava anche se le premesse c'erano tutte. Se adesso rileggiamo la Storia, gli eventi accaduti dal 2009 a oggi sembrano condurre a questo».

Tra pandemia e guerra, avevamo davvero bisogno anche di una crisi di governo?
«Purtroppo sì, ma non per cattiveria dei singoli. Il fatto è che questa è una legislatura strana e maledetta, dove tutto è tenuto insieme con una colla molto improvvisata. Sarebbe stato meglio andare al voto alla prima crisi, ossia nel 2019. Secondo me il governo Draghi è il migliore degli ultimi 70 anni, personalmente lo difenderei con le unghie e con i denti, ma, da storico, riconosco che le tendenze centrifughe sono legittime».

A chi conviene rompere?
«A tutti. A ogni partito conviene presentarsi alle elezioni con l'armatura dell'opposizione».

Restiamo un Paese di Guelfi e Ghibellini...
«Direi di sì. In tutti i Paesi è così, però bisogna dire che noi italiani siamo particolarmente assatanati! (ride, ndr) Vedo molte giugulari gonfie e soprattutto personaggi, fino a ieri noti per il loro aplomb, perdere la pazienza e diventare degli ossessi in tv. Pure all'estero esistono i fenomeni da baraccone ma lì chi ha speso una vita per costruirsi un'autorevolezza, non la butta poi a mare comportandosi come se fosse all'Isola dei famosi. Per la verità, era così anche da noi fino a vent' anni fa, poi invece...».

Secondo lei scontiamo una maledizione storica che non ci permette di essere un Paese normale?
«Visti gli effetti, direi di sì perché le giugulari gonfie erano una nostra caratteristica anche nell'Ottocento. Le ragioni sono svariate: l'Italia è diventata una nazione molto tardi e ha mantenuto una filosofia per cui gli intellettuali si mettono al servizio del potente di turno».

Cosa resta allora dello stellone italico che ci unisce e protegge?
«Ce ne ricordiamo solo quando gioca la Nazionale o durante le grandi disgrazie. Allora, sì, siamo un popolo solidale, anche molto più di altri. Il resto dell'anno invece litighiamo...».

Ragionando tra passato e presente, come passeranno alla storia Draghi e 5Stelle?
«Prima di esprimersi bisogna aspettare che il ciclo si concluda, siamo ancora a metà tragitto! Per Draghi molto dipenderà dal modo con cui uscirà di scena: l'entrata è stata molto buona. Di certo invece i 5Stelle un posto nei libri di storia se lo sono conquistato perché sono un partito improvvisato, fatto da un comico, che da un decennio occupa il governo».

Chiudo con una curiosità: il suo maestro di giornalismo fu Eugenio Scalfari, ma quello di storia era Renzo De Felice. I due però non si amavano, o sbaglio?
«Eh, sì: battibeccavano abbastanza tra loro. Io devo moltissimo a entrambi, Scalfari mi prese a L'Espresso quando avevo solo 19 anni. Che dire? Si può vivere anche stretti tra due fuochi...». 

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