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Giampaolo Rossi: "Basta ideologia, Rai respirerà"

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Giampaolo Rossi

L'ex consigliere di amministrazione e mentore di Fratelli d'Italia: «Fratelli d'Italia non occuperà la tv di Stato, ma abbatterà ogni egemonia e svilupperà l'industria culturale. Perché togliere il canone è sbagliato»

Francesco Specchia
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Gli etologi della Rai sono soliti affermare che il Cavallo di Viale Mazzini è morente o rampante a secondo dei modi e dei tempi di chi lo cavalca. Fuor di metafora, nel ricambio politico, la tv di Stato è sempre sfasata di un anno rispetto alla realtà politica circostante.

Sicché, mentre Giorgia Meloni ascende a palazzo Chigi, Giampaolo Rossi, il suo Talleyrand di riferimento nelle telecomunicazioni, ha tutto il tempo di leggere il destino del centrodestra nelle viscere dell’equino di bronzo. Rossi è avvezzo agli aruspici. Storico dell’antichità e archeologo di formazione (tesi sul popolo dei Frigi nell’Anatolia del I° millennio (“studiavo dalle fonti assire, mica dalle greche”), col suo aspetto tra Sean Connery e un prof di lettere, è l’uomo che ha trasformato Fratelli d’Italia in Rai da partitello d’opposizione del 4% in una macchina da guerra.

 Caro Rossi, lei prima da direttore di Rai Net e dopo da consigliere d’amministrazione, di viale Mazzini conosce tutti gli anfratti. I rumors le attribuiscono incarichi immaginifici. Glielo metto secca. Quando arrivò in Rai An disse: “Non faremo prigionieri!”, poi la Rai fece prigionieri loro. Succederà anche con Fratelli d’Italia?

“L’idea che chi vince debba occupare la Rai è stupida ed arrogante. Ciò che dovrebbe animare un futuro governo di destra non può essere la logica del “non faremo prigionieri” (che qualcuno in passato ha coltivato), ma quella del “liberiamo chi è prigioniero”. Questo in campo culturale non si traduce nel sostituire l’egemonia della sinistra con un’altra egemonia uguale e contrapposta, ma nell’abbattere ogni pretesa egemonica e fare respirare la cultura di questa nazione. Se il nuovo governo conservatore saprà fare questo, potrà sviluppare il valore della nostra industria culturale, darà un contributo fondamentale a un nuovo rinascimento italiano”

Cioè, mi sta dicendo che il centrodestra non cambierà – come da tradizione per tutti i partiti- le direzioni dei tg e delle che ora risultano 13 su 12 di area Pd. O che non si accorperanno i notiziari?

“Non è che la Rai dev’essere di sinistra quando vince la sinistra e di destra se al governo c’è la destra. Non funziona così. La Rai esiste perché deve rappresentare la complessa pluralità della nostra nazione. E, per quanto controintuitivo, la tripartizione dei tg di “area” politico culturali diverse sono paradossalmente, l’unica garanzia del pluralismo contro ogni lottizzazione. Pensi se ce ne fosse uno solo. La Rai ha una grandiosa tradizione di giornalismo a garanzia della libertà informativa del Servizio Pubblico. Le faccio 4 nomi di oggi: Monica Maggioni, Gennaro Sangiuliano, Mario Orfeo e Antonio Di Bella. Certo, poi io credo che oggi il sistema dei media (di cui la Rai fa parte) sia spesso “fuori sincrono” rispetto alla realtà della nostra nazione, ai suoi cambiamenti sociali profondi… ”

Ah, ecco, volevo ben dire. E quindi in Rai i cambiamenti ci saranno o no?

“E’ necessaria una riorganizzazione industriale conseguente al nuovo modello editoriale delle Direzioni di Genere varato ai tempi di Fabrizio Salini (uno degli ultimi amministratori delegati Rai con visione strategica). Per esempio, la Rai è il centro dell’industria audiovisiva italiana eppure esiste un’organizzazione del prodotto vecchia: RaiCinema è una società esterna, RaiFiction una direzione interna. Perché non creare un unico polo dell’audiovisivo nazionale accorpando in un unico soggetto cinema, fiction, documentari e i nuovi linguaggi web-native per rendere coerente la strategia e rafforzare il ruolo della Rai (e quindi dei nostri produttori) anche in una logica di promozione del contenuto italiano a livello internazionale?”

Già perché? Sa che mi sembra di sentir parlare Flavio Cattaneo, di quando faceva il direttore generale –con Agostino Saccà- della Rai più efficiente.

“Entrai ai tempi di Cattaneo e la sua Rai è stata una delle migliori in assoluto. C’è da ammettere che aveva la concorrenza della sola Mediaset e viveva un momento industriale espansivo. Ma era anche la Rai che aveva straordinari manager come Agostino Saccà o Giancarlo Leone che hanno dato uno straordinario impulso alla capacità dell’azienda di essere il centro dell’industria dell’immaginario italiano”.

Fatto sta che la Rai (anzi “il partito Rai”) è in grado di divorare sempre più spesso, come Crono, i suoi figli amministratori. Qual è la causa di questo strano cannibalismo?

“Gli ad della Rai spesso non hanno la percezione che l’azienda ha una sua spietata logica interna che esula dalla politica: pensano che la nomina imposta da un governo compensi il proprio ruolo e spesso le proprie capacità; ma questo avviene finché la tecno-struttura (quello che all’esterno chiamiamo il partito Rai) li riconosce. Nel momento in cui li considera un corpo estraneo, taglia loro tutti i ponti e loro non toccano più palla; è una sorta di meccanismo di auto-protezione che nei momenti più difficili ha saputo preservare la Rai mantenendone il ruolo fondamentale”

Si deve abolire il canone Rai o era una boutade della  Lega?

"Abolire il canone comprometterebbe l’intero sistema radiotelevisivo italiano. Attualmente il canone Rai è il più basso d’Europa (dei 90 euro annui che i cittadini pagano, solo 74 entrano nelle casse di viale Mazzini). Se lo cancelli, o devi attingere comunque alla fiscalità generale come ad esempio avviene in Spagna dove, a conti fatti, alla fine la tv pubblica costa più della nostra, oppure devi cancellare il Servizio Pubblico. Mantenerlo attingendo solo al mercato pubblicitario (togliendo il tetto sulla raccolta) porterebbe un danno irreversibile a tutta l’industria privata che di pubblicità vive, Mediaset, La7 le emittenti locali. Se ne avvantaggerebbero i grandi player globali (Netflix o Amazon) che potrebbero così invadere e colonizzare il nostro mercato”.

A proposito di “prima industria culturale”.  Lei non era quello che diceva che in Italia esiste “un élite autoreferenziale che controlla con voracità gli spazi del potere simbolico sta facendo perdere all’Italia la capacità di raccontarsi”?

“Confermo. L’industria culturale italiana è una filiera da oltre 8 miliardi di euro, soffre però di una cappa ideologica imposta dalla sinistra. La differenza è che almeno un tempo la sinistra cercava di applicare la sua egemonia con la narrativa di Calvino, il cinema di Pasolini (che poi era un grande conservatore), il pensiero di Eco, il femminismo di Luisa Muraro. Oggi lo fa con i post della Ferragni, la tuttologia di Fedez, il femminismo di Elodie e i deliri televisivi di Bernard Henry Levi”

Eccola, la mitica “egemonia culturale”. Ci sta. Però, scusi, è vero anche che quando il centrodestra –per dire- ha voluto lottizzare gramscianamente sono uscite produzioni come il Barbarossa voluto da Bossi. Che non era esattamente da Oscar….

Qui Rossi sorride. E si accende la pipa. La prendo come un silenzio-assenso. “C’è una narrazione dell’Italia introflessa e marcata ideologicamente, che non tiene conto dell’identità storica della nazione. Per esempio, in qualunque altro paese, un personaggio come Garibaldi con la sua storia avrebbe alimentato la mitopoietica e l’immaginario narrativo per anni””

Cioè: non hanno fatto una fiction su Garibaldi perché era di destra? Però l’hanno fatta su Anita, forse per le quote rosa…

“Lì c’era Cavour che era un Toni Negri ante litteram. E mi stupisco di come il cinema italiano abbia ignorato l’epopea dannunziana di Fiume, la prima grande rivoluzione libertaria in Europa, un ‘68 prima del ‘68: la carta del Carnaro, con la sua attenzione alle libertà, ai diritti individuali, al giusto welfare, al suffragio universale, fu la prima Costituzione a mettere la bellezza a fondamento della società. Ma poi pensi a D’Annunzio, De Ambris, Keller, Marconi, Toscanini, Comisso. Chissà magari un giorno saranno gli americani a raccontarceli”

L’eccezione che fanno da sinistra è che a destra dicono che “con la cultura non si mangia”, e che non hanno prodotto –diciamo- dei Premi Nobel. Come risponde?

“Che ci hanno tolto gli sbocchi. Ma esiste una cultura di “destra” profonda che si è connotata nel ‘900 attraverso analisi critiche sulla modernità e sull’impatto della Tecnica, penso a Spengler, Heidegger, Junger, Lorenz, McLuhan o Del Noce. E le  avanguardie artistiche (futurismo, dadaismo) e  Pirandello, Celine, Mishima, Tolkien, Yourcenar, alla poesia di Pound o Eliot”

E questi sono i classici. Ma c’era pure la Nuova destra degli anni 70, con la rivista Elementi di Tarchi, con la sua Nuova Destra di Stenio Solinas e Alessandro Campi  ai quali s’avvicinarono con interesse scientifico intellettuali di sinistra come Cacciari o Mughini…

“Certo, anche intellettuali come Accame o Veneziani hanno dato consapevolezza alla destra moderna. Prima ancora c’era de Benoist, dopo Scruton e Finkielkraut. Tutti loro ci hanno spinto a superare quel complesso d’inferiorità sviluppato a volte verso la gauche, dal dopoguerra. Ma sono state nicchie culturali molto alte, che non hanno influito sull’immaginario simbolico delle culture nazionali”.

E’ vero che il cambio di passo di FdI–oltre il sovranismo, l’abiura del fascismo e l’apertura a tutti conservatori - è avvenuto alla conferenza programmatica di Milano di aprile scorso, dove Luca Ricolfi andava a passeggio con Carlo Nordio e Carlo Panella, uno di sinistra, un liberale e un radicale…?

“Quella non è stato il prologo, ma l’epilogo di un percorso lungo della destra italiana verso la sua trasformazione in moderna forza conservatrice. Percorso iniziato già nel 2018 quando Giorgia Meloni decise di aderire in Europa al gruppo dei Conservatori Riformisti (di cui oggi è Presidente) superando il sovranismo della destra radicale. Oggi ho nelle orecchie le parole di Ricolfi quando, dal palco di Milano, disse: “Io che sono di sinistra sono qui con voi a parlare di libertà e lavoro perché a sinistra non ne parlano più”

Dicono che il problema non sia la Meloni che ha il 26% delle preferenze, ma la classe dirigente di FdI che è rimasta al 4%. E’ un mito da sfatare?

“Altro mito da sfatare. Non solo la classe dirigente di FdI esiste ma un senso di responsabilità verso la nazione, sarà una sorpresa per gli scettici. E non c’è neppure la sindrome dei “brutti, sporchi e cattivi”.

Converrà che la cosa inedita, in questo nuovo corso della destra, è un assordante understatement.

“La notte delle elezioni, al Parco dei Principi, per la destra italiana era un momento storico; lo vedevi anche nello sguardo dei Padri Nobili del partito come La Russa, Rampelli, Crosetto; ma ciò che colpiva di più era una compostezza che molti hanno detto innaturale. In realtà era forte la consapevolezza di essere dentro uno dei momenti più difficili e delicati della nostra storia; Giorgia l’ha rappresentato in un discorso di coesione da vera leader. Non si governa per favorire una parte politica ma per l’intera nazione…”

 

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